Renato Barilli: Garibaldini o futuristi, ma col tricolore

29 Aprile 2003
Le mostre a tema rischiano di risultare ingrate o addirittura pericolose, dato che l’obbligo tematico può portare a trascurare la presenza di un valore stilistico nelle opere esposte. Ci si immagini dunque come pericoli del genere risultino accentuati, se il tema preso di mira è addirittura quello della Bandiera dipinta, ovvero, come spiega meglio un sottotitolo, Il Tricolore nella pittura italiana. 1797-1947. Naturalmente, l’obbligo morale di affrontare questo tema è spettato alla Città del Tricolore per antonomasia, Reggio Emilia (Chiostri di S. Domenico, fino al 28 giugno, cat. Silvana). È ben nota la disaffezione del nostro popolo rispetto alla bandiera nazionale, con le scene sgradevoli davanti agli occhi di tutti dei nostri atleti del calcio che tengono pervicacemente le labbra cucite, quando risuona l’inno di Mameli, a differenza degli atleti delle squadre rivali, le cui bocche fremono, alle note fatidiche.
Insomma, una strada tutta in salita, quella affrontata da Reggio Emilia, in cui però i tre curatori, Claudia Collina, Elisabetta Farioli, Claudio Poppi, validi ottocentisti, se la sono cavata bene, forse solo con l’appunto di non aver avuto troppa fiducia che l’esame del tema potesse coincidere con le ragioni dello stile, procedendo così a spezzettarlo in molti paragrafi, quasi nella speranza di rendere più digeribile il boccone amaro.
Ma ci sono state davvero stagioni, nell’Ottocento, in cui il Tricolore era entrato nel nostro costume, e di conseguenza nell’arte di chi quel costume volle registrare con cronaca fedele e devota. I trionfatori della mostra sono da considerarsi i fratelli Induno, Domenico (1815-1878) e Gerolamo (1825-1890), che ebbero il coraggio di tenere un cammino basso e volgare, contro le presunzioni "alte" di chi invece seguiva allora le vie della pittura storica; come per esempio, in mostra, Francesco Hayez e il pur generoso e pittoricamente dotato Domenico Morelli. Se trasportiamo il confronto sul piano del romanzo, nessuno oggi dubiterebbe che i cupi romanzi storici di Massimo D’Azeglio e di Tommaso Grossi dovessero cedere il passo alla prosa dei cronisti della "vita moderna", gli intrepidi Ippolito Nievo e Giuseppe Rovani, pronti a loro volta a passare il testimone ai veristi delle ondate successive. E dunque, perché non riconoscere che ci sia tanta "verità", tanta adesione fresca e spregiudicata a una pur piccola trama di fatterelli quotidiani, quando appunto gli Induno "fotografano" un Garibaldino alla difesa di Roma,o il Quartier generale dei Piemontesi,olaPartenza dei volontari nel 1866? Casi in cui sta dav vero bene che il Tricolore faccia spiccare le sue note cromatiche nell’umile trama dei valori atmosferici. È un’Italietta coi piedi ben piantati in terra, ma che vede chiaramente la stella polare, sa che l’unità "s’ha da fare", senza sacrificare la gaietta pelle dei valori paesani.
Poi, del resto, arriva la generazione dei Macchiaioli che riesce a rassodare quel terreno di analisi minuziose, portandolo a misure più sintetiche, appoggiate a una salda orditura tonale. Ed ecco così venir fuori il capolavoro della mostra, steso da Odoardo Borrani, che penetra in un interno dove una figura femminile pensosa e assorta cuce un Tricolore, magari in attesa di passare a cucire pure una camicia rossa garibaldina, chiamata a entrare in giusto accordo col verde della veste da camera e il bianco della camicia che ne sporge. Qui davvero le scelte politiche si sanno fare anche stile e sangue del dipinto.
Borrani, in mostra, è accompagnato, per quanto riguarda il gruppo dei Macchiaioli, soltanto da un bellissimo Ritratto di Fidanzati steso da Giovanni Fattori, ma d’altra parte è ormai ampiamente risaputo che le buone virtù della macchia toscana trovano un pronto riscontro nella macchia napoletana, qui validamente rappresentata da un dipinto di Francesco Saverio Altamura, La prima bandiera italiana portata a Firenze (e appunto Firenze era allora un crocevia di ragioni poli- tiche in salda intesa con quelle dello stile). E ci sono anche due ottimi "interni" di Gioacchino Toma, a sua volta erede della pittura di "genere" degli Induno, semplificata proprio attraverso un trattamento a macchia. Se vogliamo trovare un altro momento in cui la presenza esteriore, tematica, del Tricolore al vento viene a corrispondere a scelte stilistiche, dobbiamo portarci, sempre seguendo il percorso della mostra reggiana, agli anni assai più ostici e contrastati del Futurismo, dell’Interventismo, dell’Italia velleitariamente protesa a battere la strada del colonialismo.
Ed ecco allora gli arabeschi, le generose trame astratto-concrete tracciate da Giacomo Balla, che si fa leader indiscusso del Secondo Futurismo, trascinando dietro di sé un forte gruppo di comprimari cui oggi si accorda sempre più attenzione, da Fortunato Depero, ormai assunto nell’olimpo dei maestri, a Mino delle Site, Pippo Rizzo, Osvaldo Peruzzi, Renato di Bosso.
In fondo, si ripresenta di nuovo un efficace parallelismo tra vicende letterario-narrative e conquiste pittoriche: così come il "generismo" degli Induno procedeva di pari passo con le cronache umorose di Rovani o di Nievo, le folate militariste dei Secondo-futuristi consuonano con i reportage dal fronte di un Malaparte, di un Comisso, o magari con le riflessioni più meditate di un Jahier.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …