Giorgio Bocca: Cinque anni ai tempi di Moro

25 Ottobre 2003
I sette presunti brigatisti fermati per gli attentati ai professori di diritto del lavoro D'Antona e Biagi avevano lo stesso obiettivo di quelli che sequestrarono e assassinarono Moro nel '78: la costruzione del partito comunista combattente, quanto a dire del partito rivoluzionario. È scritto nell'atto d'accusa: volevano come Moretti, come Bonisoli, come Morucci, passare dal terrorismo agitatorio e propagandistico alla fase prerivoluzionaria. Dalla morte di Aldo Moro che vide il fallimento di quel progetto sono passati 25 anni, più di quanto siano durati regimi come il fascista e il nazista che parvero eterni (i fermati Proietti e Costa erano bambini di 5 e 8 anni) ma in condizioni mutate al punto da sembrare imparagonabili. 
Certamente meno adatte a una rivoluzione. Perché a distanza di decenni rispunta questa utopia, questo impulso rivoluzionario fallimentare? Saremmo tentati di rispondere: perché nella storia italiana non esiste una vera forte tradizione rivoluzionaria, ma piuttosto una anarchica in cui il gesto fine a se stesso prevale sul progetto, in cui le minoranze sovversive non riescono mai a farsi seguire dalle masse. 
"Il sequestro Moro", mi ha detto Mario Moretti che ne fu la guida, "fu il nostro tetto, il massimo livello. La rivoluzione in quei giorni pareva scendere dal cielo come cose vagheggiate, sembrava possibile, progettabile: la richiesta di un mutamento reale che ci investì fu grande, più grande di quanto voi immaginiate. Bisognava trovare le risorse politiche adeguate, il partito". 
"Ma noi al momento non le avevamo. Le Brigate rosse lo sapevano fin dalla fondazione ma speravano che la loro avanguardia, la loro sperimentazione avrebbero aperto la strada. Non è stato così. Secondo me il pentitismo è il senso di questa sconfitta politica. Però vorrei aggiungere: può uno Stato credere di aver vinto basando la sua vittoria sul pentitismo? Può ignorare che continua la crisi politica?". 
La disfatta di un terrorismo, che arrivò a contare fra militanti e simpatizzanti migliaia di persone, è un dato di fatto che al momento sembra irreversibile. Quella che Berlinguer chiamò la spinta propulsiva della rivoluzione sovietica si è esaurita, ha ucciso l'utopia comunista. Un progetto rivoluzionario basato sulla lotta di classe, sull'impeto di chi ha "da perdere solo le sue catene" e all'evidenza impossibile, data la grande mutazione sociale di un proletariato operaio che è stato assorbito dal partito medio dei consumi e dell'automazione. 
E allora? Che cosa può aver convinto una donna come Laura Proietti, che nei giorni del sequestro Moro aveva cinque anni, o Alessandro Costa, che ne aveva otto, a provarci nuovamente? Una prima risposta molto generica, ma non irreale, è questa: un evento sociale che lascia il segno come una dittatura, come una guerra civile, come un moto sovversivo non scompare mai da un momento all'altro, lascia sempre dietro di sé una scia di revanchismi, nostalgie, imitazioni che sembrano irrazionali, sono irrazionali, ma non per questo meno reali. 
Studiando il fenomeno delle Brigate rosse che noi cronisti pensavamo politico, ideologico si è scoperto che in notevole parte, per non dire in parte preponderante era psicologico, che nella maggior parte dei casi il disadattamento psicologico personale si era innestato nell'occasione politica. 
Ricordo le parole della brigatista Aurora Betti: "Non abbiamo voluto sederci nei posti che ci avevano prenotato. La lotta armata per me è stata la massima liberazione di una soggettività che rifiutava di essere addomesticata". Il brigatista che vuole tutto e subito parte dalla lotta di classe, dalla rivolta sociale ma finisce presto nel mare magnum movimentista in cui si confondono i cascami ideologici di ogni provenienza. 
Se erano oscuri confusi i documenti delle Br storiche, quelli delle nuove Br sembrano prodotti da un intellettualismo provinciale e autodidatta, un misto di retorica populista più che comunista e di sociologismo mal digerito. Colpisce soprattutto la mediocrità delle azioni, la scelta delle vittime. Studiosi come D'Antona, come Biagi, che si limitano all'analisi dei rapporti di lavoro, decisi dalla grande macchina capitalistica, a cui al massimo suggeriscono delle correzioni riformistiche. Professori disarmati, senza scorta, da aspettare sulla porta di casa e da colpire senza il minimo rischio. Di cui, immagino, i vecchi brigatisti un po' si vergognino.

Il prigioniero di Anna Laura Braghetti, Paola Tavella

Il libro di Anna Laura Braghetti e Paola Tavella è un documento unico che ricostruisce come mai è stato fatto la vita dell'ostaggio e dei sequestratori durante i 55 giorni del sequestro Moro, raccontando la quotidianità, i gesti, i rapporti umani, le conversazioni, gli scontri, le paure e le speran…