Marco D'Eramo: Champagne per Bush. Dopo la crisi di Schröder, il referendum "stende" Chirac

31 Maggio 2005
Il mese di maggio ha sancito un vero e proprio trionfo per George W. Bush. Prima il tracollo elettorale di Gerhard Schröder poi quello referendario di Jacques Chirac hanno segnato la sconfitta - e a termine l'uscita di scena - dei due grandi oppositori della guerra in Iraq. È probabile che alla Casa bianca abbiano brindato (con champagne francese) al risultato del referendum sulla Costituzione europea. Il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld avrà assistito con malcelata soddisfazione alla ‟Vecchia Europa” che torna alle vecchie divisioni. Basti leggere l'esultanza del Weekly Standard, organo dei neoconservatori, nell'editoriale del suo direttore Bill Kristol. Certo è che il No francese fornisce un elemento decisivo alla realizzazione del progetto politico perseguito dalla Casa bianca e dai neo cons: la disaggregazione dell'Europa come alternativa al potere mondiale degli Stati uniti e cioè lo smantellamento dell'euro come valuta alternativa al dollaro.
Infatti dal voto di domenica è uscito delegittimato non solo, o non tanto, il progetto di unificazione europea, quanto l'asse franco-tedesco. Gli amici francesi con cui assistevo al dopo voto in tv, tutti ex sessantottini, hanno esultato con argomenti francamente qualunquisti e con un sussulto di antigermanismo che ci riporta ai bei tempi delle guerre mondiali. Se di qualcosa dobbiamo essere riconoscenti agli Stati uniti è che, per la loro stessa dimensione, nel corso del `900 hanno imposto alle classi dirigenti francese e tedesca di smetterla con la loro micidiale, secolare ostilità che ha fruttato all'Europa innumerevoli guerre e massacri: di fronte al gigante Usa ognuno dei due contendenti, se restava per conto suo, era condannato all'irrilevanza. È per questo che dagli anni `50, in Francia e Germania, vasti settori delle classi dominanti si sono convinti dell'ineluttabilità di un cooperazione orizzontale sempre più stretta (anche se nei due paesi una fetta della classe dirigente preferisce un'integrazione verticale al capitalismo americano). Era ‟l'ipotesi carolingia”: i tedeschi ci mettono la potenza economica, i francesi l'arsenale nucleare.
La caduta del muro ha però rovesciato la dinamica e ha portato a un ribaltamento dei sentimenti europeisti: nel 1993 i francesi avevano votato Sì al referendum sul trattato di Maastricht, nel 2005 hanno votato No. Come per un riflesso di Pavlov, dopo il 1989 la Germania è partita di nuovo a testa bassa nel Drang nach Osten, con le nefaste iniziative nella ex Jugoslavia (la spinta ai vari secessionismi ha favorito le ‟pulizie etniche”) e con il per lo meno affrettato allargamento dell'Unione ai paesi dell'ormai disgregato blocco sovietico: come ai bei tempi andati, Berlino pensava di annettersi Sudeti e Pomerania. Una parte del No francese è stata una protesta contro gli allargamenti dell'Europa passati (Polonia...) ma anche futuri (Turchia, Romania...).
È vero che domenica i francesi avrebbero votato No anche se gli avessero proposto una sesta settimana di ferie pagate, tanto è ampio il malcontento per la profonda crisi economica e sociale che attraversa il paese. Ma certo è che alla gran maggioranza della popolazione l'unità europea non pareva più apportare alcun beneficio: i parametri di Maastricht sembrano una camicia di forza delle economie nazionali e l'euro ha portato a una drammatica riduzione del potere d'acquisto e perciò del livello di vita.
L'unica cosa sicura è che, contrariamente a quel che sperava il No, non ci sarà una costituzione migliore, più sociale, meno liberista: con il ritorno al potere dei conservatori a Berlino, e con la partecipazione attiva della ‟Nuova Europa” (cioè dei paesi dell'est entusiasti del capitalismo selvaggio e della tassazione piatta), i nuovi equilibri politici renderanno impossibile una riscrittura progressista della costituzione.
Perciò si aprono due scenari possibili, ma con una identica conclusione. Il primo è che non ci sarà nessuna costituzione europea (soprattutto nel caso che anche gli olandesi dicano di no). Il secondo è che le classi dominanti pasticcino un po', facciano qualche cosmesi e riescano a far passare la ‟nuova” Costituzione truccata. Nei due casi la perdita di legittimazione politica sarà identica. Si ridurrà cioè la dimensione politica e paradossalmente si rinforzerà solo la dimensione tecnocratico-mercantile dell'Europa.
Questo processo suona la campana a morto per l'euro. C'è infatti un'enorme differenza tra una moneta e un'unione doganale (Zollverein). Una moneta unica presuppone un'unica politica economica, dove l'accento va posto sul sostantivo (politica) più che sull'aggettivo (economica). Senza politica non c'è moneta. Già adesso questa moneta scricchiola in Italia, ma la crisi europea indotta dal No francese mette a repentaglio l'esistenza stessa della valuta comune.
Il ritorno alle varie valute nazionali non solo sancirebbe la definitiva irrilevanza dell'Europa sulla scena mondiale, ma la crisi sociale e politica che ne trarrebbe origine ricorderebbe le pagine più buie della repubblica di Weimar. Anche allora ottenne un consenso chi designava un capro espiatorio ‟straniero” alla recessione economica e alla disoccupazione.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …