Giorgio Bocca: 1951. Il Po cancellò la Bassa

05 Settembre 2005
Il Po ha rotto, dalle parti di Ferrara e Occhiobello. È la sera del 14 novembre 1951. "Parti subito", dice il capocronista della ‟Gazzetta del Popolo” di Torino. Noi della cronaca eravamo gente di trincea, come i pompieri della caserma di corso Valdocco che dormivano vestiti e scendevano all’allarme scivolando sulle pertiche. Non proprio così ma quasi. Il tempo di passare a casa per prendere qualche ricambio e poi via nella notte con la tua auto, perché quelle del giornale non ci sono mai, tutte fuori per i direttori e i redattori capo. La mia auto è una Topolino rossa, cinquecento di cilindrata, due posti, ma va sul ghiaccio e nel fango e non si rompe mai. Dove? A Ferrara e al Po, la strada per arrivare sul posto dove c’è da vedere e da scrivere la troviamo sempre. La Via Emilia nella notte è una fila di camion ma la conosciamo a memoria, i panini degli autogrill sono di stoppa ma l’importante è andare. Dove? A Occhiobello, da qualche parte questo Occhiobello dovrà pur esserci e infatti c’è e ci sono le rotte negli argini, il grande gonfio incontenibile fiume nero che va giù ruggendo nel vuoto della Bassa Padana, una voragine a Vallice di Paviole, altre due a Bosco e Malcantone: sono i nomi della secolare povertà e della disgrazia che la segue come la sua ombra. Il cronista ha imparato una cosa dal suo mestiere: che tutte le vaghe notizie che gli arrivano, per radio o a voce nella notte buia, sono vere perché le persone e i luoghi non spariscono, li trovi al loro posto, dove li ha messi la storia, la vita. In più il cronista sa un’altra cosa: che non è solo, che a quell’ora, nel buio pesto, sulle loro auto stanno correndo nella notte quelli della sua pasta, il gruppo mobile che arriva di corsa sulle sciagure e sulle feste di un paese tornato a vivere dopo la guerra: ribellioni nel Sud e caccia al bandito Giuliano; crollo di case marce a Barletta; Bartali e Coppi sul Galibier; l’ultima fucilazione degli assassini di Villarboit, che hanno ucciso dieci persone con una mazza per buttarle in una fossa; e un mese su e giù per la Valle d’Aosta per cercare Nadir Chiabodo, l’imbianchino della Legione straniera che ha ucciso a coltellate sul greto della Dora la Cavallero, ma sì la cugina del bandito, guarda le combinazioni della vita.
Ci siamo tutti nella notte del 14 novembre del '51 noi della cronaca, probabilmente già davanti a tutti il vecchio Toscano, il fotografo del ‟Corriere” che avrà quarant’anni, è robusto come un toro ma che a noi ventenni sembra un vecchio. Ogni cosa, ogni persona è al suo posto nel caos della vita per chi le dà la caccia, per chi vuol conoscerla da vicino. è al suo posto Nerio Campioni, il sindaco comunista di Occhiobello.
‟Pensavano che esagerassi - racconta - ma noi il Po lo conoscevamo, andavamo sull’argine a controllare e alle due del pomeriggio comincia a tracimare in diversi punti. Corro dall’ingegner Corazza del Genio civile per dargli l’allarme, ma lui si mette a urlare: "Lei non si azzardi perché crea panico. Se continua la faccio arrestare". Sono tornato in comune, mi sono messo la fascia da sindaco e ho detto: da ora comando io. Al parroco dico di far andar le campane a martello, al direttore della Cassa di risparmio di suonare la sirena come durante gli allarmi aerei. Poco dopo sono arrivati da Modena i primi sciacalli per comperare sottocosto case e animali”.
Nella prima giornata di alluvione i morti a Occhiobello sono ottantotto, nelle case di golena. Non dovrebbero esserci case abitate nelle golene, i campi fra il grande argine e le seconde difese, ma nessuno nel Polesine degli anni Cinquanta può dire no alla povera gente, fra le più povere d’Italia, che vive a polenta e a erbe. In una stanza della casa più vicina al fiume si erano rifugiati in diciotto, stretti alle pareti, per sentirsi più sicuri. L’acqua strappò via metà casa, se ne portò via sette, anche un bambino di cinque anni che non è stato più ritrovato. I cronisti si ritrovano sempre nello stesso albergo. Lavorano e vivono in compagnia, amici e sospettosi: dove va uno, gli altri lo seguono. Si parte all’alba per arrivare al Po, all’immenso lago che ha formato da Occhiobello fino al mare. I primi giorni il lago è torbido di fango, vi galleggiano carogne di animali, alberi divelti, mobili; è percorso da correnti che creano gorghi. Poi l’acqua si cheta, il lago prende un colore azzurro grigio, solo voli di uccelli passano nel suo silenzio, nell’incanto di un paesaggio terso e immobile, fino alle Alpi dolomitiche e carniche già imbiancate di neve. Il lago copre due terzi della provincia di Rovigo, centomila ettari coltivati, con due metri d’acqua come media ma anche sei, sette fra Cavarzere e Loreo. Qualcuno conosce i numeri della inondazione, o esondazione come dicono i tecnici: otto miliardi di metri cubi di acqua, nelle prime ore seimila metri cubi al secondo in movimento vicino alla rotta. A Pontelagoscuro, un altro dei nomi di sciagura, la portata del fiume è stata di dodicimila metri cubi al secondo di fronte ai novemila della piena del 1917 che sembrò la peggiore. Cosa facciamo noi cronisti? Partiamo all’alba. C’è una strada a Ferrara, un rettilineo che va diritto al Po, asfaltata, la strada nazionale per Venezia. Ma al Po è interrotta, bisogna avventurarsi sugli argini dove gli sfollati bivaccano per cercare un posto su uno degli anfibi dei pompieri o su una barca del Genio dell’esercito.
L’Italia povera del '51 si è mobilitata, sono arrivati da ogni parte, dalla Sicilia, da Reggio Calabria, dalle Isole, che già non sanno come provvedere ai loro bisogni, alle loro disgrazie, ma si danno da fare, dormono e mangiano come possono, aiutano, rincuorano. Navighiamo a vista per il grande lago, a vista di campanili perché i borghi quasi coperti dall’acqua non si vedono, bisogna guardare gli alberi, perché sugli alberi ci sono quelli che sono scampati arrampicandosi fra i rami come uccelli sperduti e intirizziti dalla fame e dal freddo da tirar giù di forza e avvolgere in coperte. E chi è quello che si agita in piedi sul tetto di un camion dove c’era l’azienda Folega? L’unico sopravvissuto di sei o sette che sono riusciti a salire sul tetto quando l’acqua ha cominciato a crescere. Andiamo a prenderlo, non riesce neanche a parlare, suo figlio Aldo di otto anni è stato l’ultimo a scomparire nell’acqua. Navighiamo a raccogliere naufraghi mezzi morti e mezzi vivi e ad ascoltare le loro storie: ‟All’allarme abbiamo portato al primo piano alcuni mobili e anche un maiale, poi siamo arrivati al sottotetto. Ci siamo rimasti tredici giorni, mangiavamo grano pestato con una pietra e impastato con l’acqua”. E viene anche il giorno di rompere l’isolamento di Adria. In città c’erano trentacinquemila abitanti. Il sindaco è il socialista Sante Tugnolo, lo aiuta la senatrice Lina Merlin, quella che abolirà i bordelli. Chiedono per radio da Rovigo che tempo fa. C’è un nebbione tremendo ma la Merlin risponde: ‟Un sole splendido”. Partiamo anche noi con un convoglio di anfibi che vanno lenti come rinoceronti, la via principale è diventata un Canal Grande con case veneziane, bifore, marmi, acqua e battelli e gente che applaude alle finestre. Passiamo davanti al bordello, le ‟signorine” sono tutte sul balcone a gridare ed applaudire, hanno issato una grande bandiera tricolore, chi sa dove l’hanno trovata, forse era lì dalla Grande Guerra. ‟è stata una tragedia in bianco e nero” dirà Gioia Beltrame, l’assessore alla Cultura della Provincia di Rovigo. ‟Non c’era la televisione, le notizie arrivavano per radio, e con i giornali”. Sui giornali i cronisti raccontavano le cose viste. I giornalisti celebri, le grandi firme, inventavano i titoli a tutta pagina: ‟Acqua traditora” si leggeva su ‟La Stampa” a firma Paolo Monelli. Centosessantamila persone abbandonarono la provincia di Rovigo e si associarono, magra consolazione nei "Polesani nel mondo". Ma una buona parte finì nella Val d’Aosta dove c’erano posti nelle miniere di Cogne e di Morgex. Molti morirono per la polvere di carbone finita nei polmoni, fino a poco tempo fa riconoscevi i sopravvissuti dalla raucedine cavernosa della voce. Erano dei poveri più poveri dei valdostani, che perciò subito li distinsero chiamandoli i ‟giapuneis”, quelli delle baracche vicine alle gallerie e delle case popolari ad Aosta. Oggi i loro eredi hanno l’auto e vestono come i boys americani. Tutto ricostruito, tutto dimenticato: i 52 ponti caduti, le 1.200 abitazioni danneggiate, i 55mila ettari di coltivazioni coperti dalla sabbia, i 13mila capi di bestiame morti, un centinaio di persone perite. Lo scolo delle acque fu costoso, dopo tre mesi la superficie allagata si era ridotta a un terzo ma per i campi coperti di sabbie sterili ci sono voluti anni. Buona parte dei 174mila sfollati si è sistemata altrove. E i cronisti? A loro il lavoro non è certo mancato nell’Italia dello sfascio incombente e delle continue sciagure.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …