Beppe Sebaste: Fede. Una questione di appartenenza

03 Ottobre 2005
Che il dibattito attuale tra religione, laicità, morale, dove nulla appare al suo posto, sia insoddisfacente se non falso, credo di averlo già espresso. Tra le ultime ipocrisie c’è la deliberata confusione dell’assegnare la questione della fede di volta in volta alla sfera pubblica o alla sfera privata. Ma cosa significa ‟fede”? Diversi anni fa, in un libro tradotto da Feltrinelli - L’universo come dimora - una bella conversazione tra Fritjof Capra, un fisico laico con simpatie buddhiste, e David Steindl-Rast, un monaco benedettino - lessi di quest’ultimo una riflessione che mi piacque: ‟La fede è una questione di fiducia. Coraggiosa fiducia in quella suprema appartenenza che si avverte nei momenti di religiosità, nei momenti in cui si verifica una peak-experience. La fede è quel gesto interiore con cui si affida se stessi a quella appartenenza. L’elemento di fiducia è primario. La fede è una coraggiosa fiducia nell’appartenenza. Nei nostri grandi momenti, proviamo l’appartenenza. Ma ci sembra troppo bella per essere vera, e così non riusciamo ad abbandonarci del tutto a essa. Però quando ci affidiamo alla vita, al mondo, il nostro è un atteggiamento di fede, nel senso più profondo del termine. È un gesto interiore come quello a cui ci riferiamo quando diciamo di ‟aver fede in qualcuno” o di ‟agire in buona fede”.
Ogni riduzione della fede a confessione religiosa che lascia fuori il mondo, gli altri, è un abuso. D’altra parte, proclamare di non appartenere a ‟nessuna chiesa” lascia fuori un’esperienza fondamentale, quella dello scoprire (le vie di questa scoperta sono infinite) la connessione e interdipendenza universali del mondo. Religiosità è allora consapevolezza di un legame che la fisica, la biologia, la filosofia (ma anche la politica: penso al disarmo unilaterale di Gorbaciov) conosce, e che la teologia designa con una parola - ecumenismo - che, ricondotta alla sua etimo, ritrova il senso originario di ecologia e di economia: studio della dimora, legge della dimora, dimorare insieme (dal greco oikos, casa). Non è certo per essere politicamente corretti che preferirei si dicesse ‟di tutte le chiese”, allo stesso modo in cui non c’è nessuna giustificazione nel rifiutare un cibo che altri mangiano o di abitare là dove altri abitano, nel disprezzare un rituale cui altri ‟credono” affidandosi. Nell’usanza non c’è errore, scriveva Wittgenstein. Non è un elogio del senso comune, tanto meno della cosiddetta ‟opinione”, ma dei rituali, delle credenze, del loro tramandarsi. Ciò di cui nessuno, tanto meno un soggetto politico, ha il diritto di appropriarsi.

Beppe Sebaste

Beppe Sebaste (Parma, 1959) è conoscitore di Rousseau e dello spirito elvetico, anche per la sua attività di ricerca nelle università di Ginevra e Losanna. Con Feltrinelli ha pubblicato Café …