Gianfranco Bettin: Natasha, c’era una volta una bambina

01 Settembre 2006
C’era una volta una bambina. Ha solo dieci anni, all’inizio di questa storia. In un mattino di marzo sta passeggiando non lontano da casa, in una civilissima città dell’Europa centrale. Improvvisamente, qualcuno l’afferra e la porta via. Nessuno la vede più. Non la famiglia, cioè il padre e la madre, allora già divorziati, e la sorellastra. Non le amiche. Nessuno. E nessuno lei può incontrare, chiusa in una prigione sotterranea, che forse il suo custode vorrebbe simile a una casa di bambola. Lui si chiama Wolfgang Priklopil, fa il tecnico elettronico. Ha 36 anni quando la rapisce, il 2 marzo ‘98. Ne aveva 44 l’altra sera, quando si è buttato sotto un treno a Vienna dopo aver capito che lei, Natascha Kampusch, che nel frattempo, chiusa nella villetta prigione, ha compiuto 18 anni, era fuggita e non l’avrebbe più ripresa, e che la polizia lo stava braccando.
C’era una volta, verrebbe davvero da incominciare, perchè questa storia trascina fatalmente verso un fondo di cupe favole nordiche, il fondo stesso dei racconti dei Grimm, che in realtà non è altro che un nostro remoto sostrato storico-esistenziale, il luogo intimo e oscuro in cui terrori e incanti coabitano, e incubi, suggestioni e memorie profonde si mescolano. Ci riportano ai boschi e alle foreste di un’umanità arcaica e spaurita, ma anche ai focolari di un caldo, raccolto ambiente domestico, strenuamente protetto sia con la più accorta prudenza sia con l’ardimento più estremo, qualità opposte ma spesso entrambe necessarie nelle età primordiali della nostra storia (e magari anche oggi, a volte).
Natascha è finita in un’età del genere, incistata nell’epoca attuale. Forse è solo un residuo di un altro tempo. Forse è invece una dimensione di cui non ci libereremo mai e che costringerà, perciò, a continuare a lottare sempre contro i portatori di terrori primari, i rapitori di bambini, gli orchi. Quelli che insidiano i focolari e i giardini, e che infestano i boschi, e non sono le repellenti zecche o i poveri e fieri lupi o gli orsi esuberanti o i caprioli in eccesso.
Cosa è successo a Natascha in questi otto anni? ‟Lasciatemi il tempo per poter raccontare a me stessa quello che è successo,” ha scritto ieri in un comunicato redatto insieme al consigliere psichiatrico che le autorità viennesi le hanno affiancato. Ha rifiutato, perciò, altre dichiarazioni o interviste (per cui sarebbe stata molto ben pagata). Chiede il rispetto della propria privacy fino al punto da deprecare che siano state diffuse le immagini della sua casa-cella: una stanzetta in cui giocattoli, quaderni e libri, vestiti, utensili, suppellettili si accatastavano in pochi metri quadrati. Ha respinto ogni curiosità, da quelle che ha definito ‟voyeuristiche” (incentrate sui probabili abusi sessuali subiti) a tutte le altre, con molta decisione: ‟Tutti vogliono farmi domande sulla mia vita privata, ma questi non sono fatti che devono essere di dominio pubblico”. Non si sa, davvero, se restare più agghiacciati o inteneriti o ammirati da quello che di lei trapela da questa storia. Ma anche dagli elementi oggettivi che via via emergono si è spinti contraddittoriamente, alternativamente, verso questi stati d’animo.
‟Non l’ho mai chiamato padrone, anche se lui avrebbe voluto. Eravamo in una situazione paritaria: lui certe volte mi coccolava, altre mi maltrattava, ma in quella casa sono cresciuta al riparo da molte cose, come dal fumare, dal bere, da amicizie sbagliate. Sono diventata una giovane donna con un interesse per la cultura anche se la mia vita quotidiana è stata caratterizzata dall’angoscia legata alla solitudine”, ha scritto. Non sappiamo quanto sia farina del suo sacco, questo lucido, consapevole modo di esprimersi, e quanto debba al suo consigliere. Sappiamo ancora pochissimo sia della sua vita di prima – che nella lettera lei per certi versi liquida, oggi, dicendo che, appena rapita, ‟non avevo la sensazione di aver perduto qualcosa” – sia di Priklopil.
Cosa voleva fare di Natascha? Tante, troppe cose, sembra. La sua bimba, la sua allieva, la sua amante. Tutte cose legate insieme da una volontà avida di possesso. Di sequestro, letteralmente. Perchè non l’ha solo sequestrata a quelli con i quali viveva, l’ha anche e prima di tutto sottratta a se stessa, sottraendole la libertà di crescere, e magari anche di correre i rischi – non solo ‟fumare, bere, amicizie sbagliate...” - che corrono tutti gli adolescenti. Quando ne sapremo di più, su Priklopil, potremo forse azzardare qualche ipotesi sulla sua personalità, sull’itinerario psicologico e sul contesto sociale e culturale in cui si è snodato. Per ora, è Natascha ad avvertirci che l’orco, per lei, non era solo un mostro.
Potrebbe sembrare, in qualche sua dichiarazione, di trovarci in una variante della ‟Bella e la Bestia”, altra storia archetipica (rilanciata, e magari un po’ banalizzata, dal fortunato film disneyano, premio Oscar 1991, remake del film meraviglioso di Jean Cocteau del 1946, prima versione cinematografica della vecchia favola di Madame Le Prince de Beaumont). Solo che sembra improbabile che Wolgang Priklopil, neanche se avesse avuto ancora più tempo, avrebbe potuto rivelarsi infine un giovane principe trasformato in un essere ripugnante.
Natascha ha avuto parole di pietà per lui. Ha detto che ‟la morte di Wolfgang non era affatto necessaria” e che, per il suo suicidio, ‟si sente in lutto”. Forse a farla esprimere così non è altro che la ‟sindrome di Stoccolma”, che lega morbosamente certi prigionieri ai propri aguzzini, come qualcuno si è affrettato a dire. Ma forse c’è dell’altro.
Forse c’è davvero una bambina, una ragazzina e oggi una giovane donna, capace di trovare, anzi di aprirsi, una strada nel buio bosco delle paure e delle perversioni adulte. Venuta da un luogo e da una storia che, ricostruite oggi sulla base delle sue stesse parole (e del comportamento per certi versi sconcertante dei genitori dopo la sua liberazione), non sembrano immuni da disagi e desolazioni, e comunque costretta a recidere ogni legame precedente, ha saputo reinventarsi, ha saputo crescere, in un ambiente patologico che tuttavia era il solo che potesse frequentare, il solo che avesse. Ne avrà certo respirato i morbi, assimilato lo squallore di luogo abitato da psicopatie e pulsioni maniacali, forse anche le tracce di sofferenze e miserie umane indicibili. Ma come certi eroi bambini dei Grimm, appunto, ha saputo infine, con una forza ammirevole, conservare l’istinto della libertà e l’astuzia necessaria a beffare l’orco. L’ultimo atto della storia, la fuga, ha proprio questo sapore di astuzia fiabesca. A lui dava fastidio il rumore dell’aspirapolvere e, quando le ha ordinato di provvedere alla pulizia dell’auto in giardino, lei ha mandato il rumore al massimo. Lui si è allontanato, per non sentirlo, e Natascha ha potuto evadere.
Non c’è niente di scontato in questa storia, niente di ovvio. In un certo senso, in realtà, va oltre le fiabe, o forse, più precisamente, oltre il modo meccanico e superficiale in cui siamo abituati a leggerle o a ricordarle. Forse abbiamo bisogno di tornare a interrogarle, specialmente soffermandoci sul loro lato oscuro, su ciò che accade prima del lieto fine edificante a cui siamo abituati. E’ lì, in realtà, che rischiamo di trovarci spesso. Esattamente dov’era Natascha quando nessuno sapeva più dove fosse finita. Nel luogo da cui lei ha saputo tornare.

Gianfranco Bettin

Gianfranco Bettin è autore di diversi romanzi e saggi. Con Feltrinelli ha pubblicato, tra gli altri, Sarajevo, Maybe (1994), L’erede. Pietro Maso, una storia dal vero (1992; 2007), Nemmeno il destino (1997; 2004, da cui è …