Renato Barilli: Viaggio in Italia di Goya da giovane

12 Settembre 2006
Luigi Magnani Rocca è stato un musicologo di valore che alla sua vocazione principale univa un vivo amore per il collezionismo d’arte, così da riunire, nella splendida villa di famiglia sita nel parmense, a Mamiano di Traversetolo, una serie di capolavori, da Dürer fino a Morandi. Prima di scomparire, Magnani ebbe la previdenza di costituire una Fondazione cui affidare la tutela delle sue opere preziose, e chi in seguito ne ha avuto la cura si è preoccupato di costruire, attorno ai pezzi più consistenti della raccolta, delle mostre non di vasta mole, bensì volte a costruire come dei dossier, dedicati a quelle punte d’eccellenza. Così è stato già nei casi di dipinti di Füssli, De Staël e Fautrier, ora è la volta di Francisco Goya y Lucientes (1746-1828), di cui la Fondazione possiede il favoloso Ritratto dell’Infante Don Luis di Borbone, un capolavoro della prima maturità dell’artista (1783-84) che sfida e forse supera il celeberrimo ritratto poi dedicato, dal grande Spagnolo, nel 1800, al Borbone regnante e ai suoi familiari.
Giustamente Fred Licht e Simona Tosini Pizzetti, curatori di questa esposizione, hanno delimitato il compito ai rapporti che Goya ebbe con «la tradizione italiana», e così è stato inevitabile partire da un curioso episodio, nella carriera dell’artista, che lo ha legato strettamente a Parma. Infatti nel 1771, appena venticinquenne, egli affrontò il canonico viaggio in Italia, stimolato proprio da un concorso istituito dalla città emiliana, su cui regnava un ramo dei Borboni, attorno al tema di Annibale che varca le Alpi. E la mostra si apre proprio col felice ritrovamento di questo dipinto, che riportò soltanto il secondo premio. Ma sull’episodio sarebbe inutile insistere più del dovuto, non si può rimproverare i giudici di allora se preferirono il saggio di un tale Paolo Borroni, poi affondato nell’oblio. In effetti quella prova scolastica del futuro maestro non reca manifesti i segni del genio, la scena è affollata, e semmai cattura gli occhi il dorso ignudo di un guerriero, già schiacciato sulla linea dell’orizzonte, come avverrà nei più importanti dipinti successivi. Al confronto, l’opera vincitrice appare più sciolta e mossa, onestamente, chissà, anche noi, allora, l’avremmo preferita.
Ma il tradizionale viaggio in Italia di Goya da giovane, con tappa finale a Roma, fu per lui ben altrimenti importante perché lo mise in contatto con una linea stilistica che gli permise di contestare l’alto insegnamento di Giambattista Tiepolo. Il maestro veneziano aveva portato la magniloquenza della sua pittura tardo-barocca proprio a Madrid, e vi era morto nel 1770 al colmo della gloria. Ma i giovani di allora, al pari del nostro Goya, si dissero che quell’esempio troppo solenne, concepito in termini retorici, era da respingere in toto, meglio ridurre, disarmare le composizioni gremite, puntare su figurette ridotte di volume, ferme nei lineamenti, concentrate attorno a un fulcro e a un asse centrale. Insomma, a Roma, il giovane Goya ebbe occhi per il Mengs, coi suoi volti bamboleggianti, perfino leziosi; ma appunto conveniva «volare basso», invertire la direzione di marcia. E se non era il Mengs ad affascinarlo, poteva essere Pompeo Batoni, con le sue figure solenni, svettanti lungo la verticale del dipinto. Uno dei meriti della mostra, dopo aver esaurito il capitolo del saggio giovanile bocciato all’esame parmense, è proprio di indugiare sulla ritrattistica romana, che come sempre guidava il gusto europeo. Ecco allora, fra gli altri, i ritratti forti, solenni, incombenti del maggior artista romano della prima metà del Settecento, Marco Benefial. Insomma, da quel soggiorno nell’Urbe Goya impara che bisogna sgranare le immagini, scioglierle dai grovigli della stagione tardo- barocca, presentarle con grazia una alla volta. Ed ecco così la buona campionatura della sua ritrattistica, negli anni ’80, resa possibile in questa mostra grazie a prestiti eccezionali dal Prado e dalla National Gallery di Washington.
Per ambientare al giusto questa produzione bisogna guardarsi dall’agitare subito alcuni temi alquanto convenzionali, stabilitisi attorno a Goya, come quello che vuole vedere in lui un campione di realismo-naturalismo, lungo un asse che parte da Velàzquez per giungere magari a Courbet o ai grandi realisti dell’Ottocento. Al contrario, almeno in partenza lo Spagnolo odia quella linea, vuole costruire i gruppi familiari come fossero collezioni di bambolotti preziosi, da racchiudere in una teca, docili manichini con volti stereotipati e mosse un po’ legnose, quasi di marionette, tanto che all’artista si dà più che altro il diritto di abbigliarli con abiti vaporosi ricchi di trine. Ma allora, dove va a finire l’altro volto di Goya, quello che introduce agli orrori, agli incubi della parte notturna della nostra esistenza, e che trova espressione, anche in mostra, nelle incisioni dei Capricci? In questo senso è rivelatore La Famiglia dei Duchi di Osuna, del 1787-88, proveniente dal Prado, e giustamente riprodotta anche nella copertina del catalogo. Sia i coniugi, sia i loro quattro figlioli posano assorti proprio come bambolotti conservati sotto vuoto spinto, ma nei loro occhietti a spillo, sbarrati in avanti, si può cogliere anche una nota di spavento, attraverso quei pertugi può iniziare un viaggio verso gli ultimi confini della notte.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …