Renato Barilli: Turner e gli impressionisti a una dimensione

13 Novembre 2006
Questa volta Marco Goldin ha superato se stesso proponendo, nella sede ormai stabilmente acquisita del complesso bresciano di S. Giulia, due maxi-mostre in un colpo solo. L’intraprendente manager ci aveva già abituato, ancora ai tempi di Treviso, a servirci in tavola un piatto principale accompagnato da qualche contorno, e anche questa volta i contorni ci sono, uno dei quali addirittura dedicato a Osvaldo Licini. Ma due sono gli appuntamenti di grande portata, Turner e gli Impessionisti e Mondrian (fino al 25 marzo, cat. autoedito sotto la sigla di Linea d’ombra). Dico subito che il primo di questi rientra nel profilo caro al nostro curator, largamente impostato sul facile sfruttamento dell’aura nostalgica propria del fenomeno impressionista. Ne parlerò qui di seguito in tono complessivamente negativo, rimandando invece a una prossima occasione il commento al percorso mondrianesco, che viceversa si rivela molto ben costruito. Purtroppo i due eventi affiancati, invece che rafforzarsi a vicenda, si danneggiano, o meglio a pagare il fio è la retrospettiva dedicata a Mondrian, uno dei maestri del contemporaneo che con fatica, e agendo anche su di sé, ha voluto portare la nostra navigazione proprio fuori dalle paludi dell’Impressionismo, cioè di un’arte improntata a miti desueti e superati. Lo si vede a colpo d’occhio, infatti mentre la mostra turneriana è affollata da squadre di pubblico, posto ai due lati della scala anagrafica, o giovani scolaresche trasportate d’ufficio, o gruppi di anziani intimoriti dalle ‟spieghe” snocciolate da solerti guide, l’altra, assai più seria e impegnativa, ma inevitabilmente più ostica, si tiene a sale semivuote, con grave danno in termini educativi.
Del resto, anche l’esposizione che si richiama specificamente a Turner (1775-51), lo fa quasi a fatica, basti vedere come in realtà nel frontespizio del catalogo sia esibita una Cattedrale di Rouen di Monet, il vero idolo nel cuore di Goldin; ma purtroppo la visione monettiana, corpuscolare, anzi, pulviscolare, abbarbicata ai dati sensoriali più ghiotti e localisti, è l’esatta negazione del modo di procedere del suo predecessore. Turner, ormai la critica più avvertita lo ha dimostrato, è un precursore della concezione di un universo percorso, come vogliono i parametri della fisica attuale, dalle onde elettromagnetiche, o quanto meno dai loro equivalenti a livello meteorologico. Il grande paesaggista inglese amava dipingere i marosi su cui le imbarcazioni beccheggiano con moto alterno, oppure i nembi, le fumate, le eruzioni, gli arcobalenti, insomma, tutti i fenomeni turbinosi, che solcano l’atmosfera, la fendono, richiedendo che questa, quasi, non presenti ostacoli a tanta furia avvolgente. Da Turner, se si vuole, parte una strada che conduce fino a Pollock e al suo vorticoso dripping. Se invece si vuole un maestro di Monet e degli altri paesaggisti del tardo Ottocento, bisogna rivolgersi alla controparte, qui messa a confronto dell’altro, cioè all’onesto ma limitato John Constable (1776-1837), in cui la terra si rassoda, si appiattisce al suolo, e i cieli risultano occupati da nembi pesanti, in attesa di sciogliersi in pioggia. E diciamo pure che un bel dittico Turner-Constable sarebbe stato assai utile, degno in fornire un consistente richiamo. Ma il nostro Goldin soffre di bulimia, e dunque la coppia fondatrice del paesaggismo ottocentesco è da lui offerta solo come prologo, seguono centinaia di dipinti posteriori, evocati talvolta a sproposito (che ci fa, per esempio, una sezione sul paesaggismo accademico e classicizzante, già superato di getto dai due grandi inglesi?), talvolta invece meritevoli di darsi come oggetto di una mostra autonoma, come avviene nel caso della Scuola di Barbizon. Perché Goldin non si è limitato a farci ammirare appunto I Barbizonniers, Théodore Rousseu, Diaz de la Peña, Troyon, così poco visti in Italia? Tra di loro militarono perfino Millet e Courbet, e ne venne attratto pure il gande Corot, giusto quindi che anche loro entrino in campo.
Ma no, ‟va’ dove ti porta il cuore”, e questo, nel petto del nostro dinamico curator, pulsa, lo sappiamo bene, a favore di Monet e compagni, si appaga, si tranquillizza solo quando può sciorinare sulle pareti, nei lunghi budelli di Santa Giulia, ostruiti dai capannelli che pendono dalle labbra dei giovani istruttori, metri e metri di opere monettiane, accompagnate dal conforto dei compagni di via, Pissarro e Sisley soprattutto. Per carità, si tratta in genere di opere magnifiche, rastrellate col pettine fine ai quattro angoli del mondo, il curatore deve aver compulsato con attenzione i cataloghi di decine di collezioni, pubbliche e private, per andare a rastrellare questo ben di dio, visto che le sedi autorizzate, come il Musé d’Orsay, li imprestano con giusta parsimonia. E ci sono scoperte affascinanti, si vedono sempre con ammirazione certi capolavori di Caillebotte, sacrificato in genere al mito monettiano perché aveva il torto di occuparsi più dei fatti umani che del mormorare delle frasche al vento; e si fa un passo indietro per cogliere eccellenti opere pionieristiche di Jonkind e di Boudin. Insomma, se si tratta di coltivare il filone aureo dell’Impressionismo nei suoi molti esiti (basta che sia Doc, cioè nato in Francia, visto che ogni altro prodotto che aspiri alla medesima etichetta deve essere considerato abusivo), la mostra naviga in acque sicure e fortunate.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …