Renato Barilli: Pinot Gallizio, se la pittura finisce a rotoli

29 Gennaio 2007
Francamente, è da considerarsi un’occasione non sfruttata al meglio, la retrospettiva che il Comune di Alba ha organizzato attorno al suo cittadino più noto, Pinot Gallizio (1902-1964). E dire che, consci dell’importanza dell’evento, i curatori, con in testa Andrea Busto, vi si erano accinti con impegno, a cominciare dal volto di Gallizio, proposto su ampi ‟lenzuoli” lungo il percorso di accesso alla mostra, col suo volto da fiero ‟provinciale”, ben ambientato nel cuore delle Langhe, provvisto di qualche rassomiglianza rispetto al Guareschi dominatore della ‟bassa” parmense. E anche il Palazzo delle mostre e congressi che ospita la rassegna (fino al 1° maggio, cat. Silvana) è ampio e accogliente a sufficienza. Ma forse Alba aveva già sfruttato in precedenza taluni aspetti del suo cittadino illustre, o più ancora un eccesso di impegno è stato di ostacolo alla nettezza della proposta. Infatti la rassegna pretende di fornire ‟il tempo” del personaggio, nell’arco che va dal 1953 al 1964, cioè uno spaccato di quanto allora accadeva nei vari aspetti e settori del nostro Paese, ivi compresi il cinema, la moda, la grafica pubblicitaria. Ma talvolta allargare il panorama significa anche renderlo indistinto, una ripresa in campo lungo è di ostacolo alla nitidezza dello sguardo. In definitiva, in questa mostra c’è troppo per un verso, troppo poco per un altro. A cominciare dal versante più intrinseco all’azione di Gallizio, la pittura, in cui egli entra in campo quando ha già cinquant’anni suonati, da ardente neofita del clima informale, nelle sue varie propaggini. Di cui, certo, la mostra offre un’esatta documentazione, nei suoi vari filoni e accenti, che come è noto furono molti, diramati, talvolta contrastanti. C’è in tutto ciò una giustificazione, in quanto Gallizio si tuffò proprio in modo alquanto indiscriminato, nel folto tessuto di quelle sperimentazioni, ed è giusto quindi confrontarlo coi ‟materici” come Burri, risalendo addirittura al polimaterismo di Prampolini, o invece coi ‟segnici”, iniziando con un maestro del filone quale Hartung, e continuando con il santone della Scuola del Pacifico, Tobey, e con gli affiliati italiani sopraggiunti in seguito, quali Scanavino e Novelli, risalendo poi ai furori gestuali di Vedova e di Moreni. E ci sono nel mazzo anche coloro che in quegli anni coltivarono un figurativismo primitivo e barbarico, capeggiati da Dubuffet e da Jorn. Riferimenti che valgono tutti, nel caso del Nostro, ma che appunto rischierebbero di travolgerlo, di fare di lui una specie di volonteroso apprendista, abbastanza insicuro circa la sponda cui radicarsi. Così è, finché Gallizio coltiva queste varie carte nel mazzo, mescolandole tra loro. Ma, verso la fine degli anni ’50, egli si accorge proprio di quanto sia dispersivo praticare l’Informale nelle sue varie declinazioni. Occorre una scatto in avanti, fondato sull’intuizione che quella stagione di angosce esistenziali individualiste e solitarie è ormai al lumicino. Gli anni ’60 incalzano, e con essi un bisogno di allargare l’orizzonte, di dare ascolto a nuove masse di utenti. Il ‟gesto” degli informali in sé è giusto e splendido, ma bisogna farlo uscire dal suo clima solitario, l’industria sta per ripartire alla grande, però, ahimé, con i suoi schemi e ritmi spersonalizzanti. E dunque, che fare? Persistere a coltivare lo splendore dell’atto gratuito, del puro documento di vita, o andare incontro al bisogno ‟popolare” di partecipazione a un prodotto allargato? Nasce a questo punto il coraggioso proposito di Gallizio di conciliare i due corni del dilemma, dando origine alla cosiddetta ‟pittura industriale”: questi gesti informali, in luogo di consumarsi nella solitudine del pezzo unico, dovevano prolungarsi in una ripetizione come scorrendo su una catena di montaggio, ma senza perdere la loro golosa originalità. Un tentativo, insomma, di conciliare la qualità della testimonianza esistenziale con la quantità della merce. In pratica, Gallizio si rivolse a lunghi rotoli di tela bianca su cui imprimeva i suoi guizzi, le sue stoccate impetuose: con la conseguenza che di quel tessuto infinito si poteva avere una consumazione ‟a metro”, al taglio, come si dice anche per la pizza. Purtroppo la mostra in questione commette il peccato di superbia di credere che questa ‟pittura industriale” del suo cittadino sia fin troppo nota, e non valga la pena di presentarla una volta di più. Coerente con questo impegno ad allargare l’orizzonte, Gallizio, allora, si alleò con gli esponenti del situazionismo, come il sociologo francese Guy Debord e l’architetto olandese noto col solo nome proprio, Constant, prevedendo la necessità di progettare nuclei abitativi, ma per un’umanità non già stanziale, non per le api industriose da inscatolare negli opifici della società consumista, bensì per un’umanità di diverso conio che, grazie all’avvento della società postindustriale, si sarebbe messa in marcia, ritrovando i caratteri delle culture nomadiche. Per questo verso egli fu pronto a prendere a modello il nomadismo perenne delle tribù tzigane, per le quali Constant venne invitato a progettare delle specie di accampamenti mobili. Allora era una profezia che si scontrava con i caratteri dell’industrialismo pesante, ma il clima del 68 l’avrebbe fatta propria e rilanciata. Purtroppo Gallizio cadde in via e non giunse a vedere quei tempi nuovi.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …