Renato Barilli: E la fetta di salame diventa neogotica

30 Luglio 2007
Dicevo in una precedente occasione del posto fisso che Matera si è procurata, in un calendario di eventi estivi, con le mostre dedicate ai maestri della scultura italiana del Novecento. La segue a ruota, a non molta distanza geografica, l’iniziativa nota col titolo di Intersezioni che da tre anni, sotto la guida di Alberto Fiz, mette in scena nel magnifico sito archeologico di Scolacium, nei pressi di Catanzaro, alcuni esponenti della migliore ricerca plastica internazionale. Si era iniziato tre anni fa col terzetto Mimmo Paladino-Tony Cragg-Jan Fabre, cui aveva fatto seguito l’a solo concesso all’inglese Anthony Gormley. Ora entrano in campo il tedesco Stephan Balkenhol, il belga Win Delvoye e l’inglese Marc Quinn (cat. Electa). Ma parlare del primo, di Balkenhol, in questa circostanza che lo vede in un appuntamento collettivo, sarebbe forse non rendergli un buon servizio, visto che ha in atto un’ampia retrospettiva al Padiglione d’Arte contemporanea di Milano; meglio quindi andare a misurarlo in un’occasione così specifica. Quanto al fiammingo Delvoye, è da considerare una sorta di enfant prodige, visto che, nato nel non lontano 1965, ebbe la sorte di comparire, nel 1986, poco più che ventenne, in una favolosa mostra presso Ileana Sonnabend, uno dei riconosciuti templi dell’avanguardia a New York, e gli erano accanto nientemeno che Jeff Koons e Haim Steinbach, cioè i protagonisti di un mutamento epocale, venuti a dire che era finita la stagione dei revivalismi e citazionismi venati di intenti nostalgici, si ripartiva nel segno delle avanguardie oggettuali dure e pure, quale era stata incontestabilmente la Pop Art nei primi anni ’60. Ma con una differenza, dato che quel movimento principe dei recente passato si era posto totalmente in un ambito di consumismo davvero «popolare», inneggiando agli utensili primari che entravano negli usi quotidiani delle masse, a partire dalla famigerata bottiglia di Coca Cola e continuando con i sandwich, i coni gelato, i tostapane. Vent’anni dopo, il consumismo si era fatto più sofisticato e tentava di fondere il popolare con un recuperato bisogno di aristocrazia, di eleganza, anche se ad attendere implacabilmente un simile sogno di elevazione stava il traguardo del kitsch, del cattivo gusto. Ma gli artisti esposti dalla Sonnabend riuscivano ad attraversare splendidamente il kitsch, a riconvertirlo felicemente al valore.
Comunque, si trattava di giocare con due carte nella manica, il che, se si vuole, corrisponde alla figura retorica detta dell’ossimoro, esemplificata chiaramente nel detto latino festina lente, affrettati ma con calma. Nel caso di Delvoye, vale un gigantesco: affronta pure gli oggetti legati ai bisogni più squallidi e banali, ma rialzali affibbiando loro abiti di inaudita, spropositata magnificenza, creando un congiungimento sbalorditivo, barocco, sempre sul punto di scivolare nella comicità. Infatti nel repertorio di Delvoye entrano tanti casi di questa strategia ossimorica: la banale rete da goal dei campi di calcio viene foderata con vetrate simil-gotiche, le pale per i lavori dei campi ospitano austeri stemmi araldici, le scavatrici, le betoniere vengono rifatte con un trattamento artigianale che le scolpisce nel legno e le riempie di riccioli di sapore rococò. Di recente l’artista belga ha rivolto la sua attenzione verso il capitolo del neogotico, che era già di per se stesso un omaggio al kitsch, un rifare i miracoli del gotico storico sfruttando i materiali ferrosi della modernità, ed ecco così che tutti i macchinari dei lavori terra-terra vengono riversati nelle strutture traforate di un goticismo rubato ai manuali di Viollet Le Duc. E appunto negli scavi di Scolacium fanno bella prova di sé questi ircocervi dell’utile, del funzionale che viceversa tenta di conciliarsi con paludati abiti del passato. Ma il nostro Delvoye è irresistibile, nella capacità di giocare su questi contrasti. In altri casi, grasse e lardose fette di salume sono divenute motivi preziosi per mattonelle in ceramica, allietate anche dalle sagome fusiformi degli escrementi di cane. I fianchi opimi di maiali, usati dal vivo o rifatti in gesso, sono stati istoriati, anche in questo caso, da pattern decorativi di nobili origini, e così via, allegramente contaminando.
Quanto all’inglese Marc Quinn (1964), egli appartiene a quel clima londinese che è stato scandito dalle mostre profanatorie organizzate dai collezionisti Saatchi and Saatchi sotto il titolo di Sensation, la cui stella è da ricercare nell’oggi straripante Damian Hirst, in lotta col nostro Cattelan nel contendersi il primato del clamore mediale. Ma Quinn non è certo da meno, in definitiva si può attribuire anche a lui un procedere in modo ossimorico, a prima vista sembra che egli partorisca una schiera di perfette statue marmoree, intente a ricalcare i sacri canoni della perfezione classico-museale. Ma su quei candidi fantasmi interviene un tratto di perversione, di aberrazione, per cui a un tratto i perfetti corpi atletici perdono braccia o gambe, come per effetto di qualche medicinale inquinato. Il talidomide è in agguato, interviene crudelmente a deformare quella popolazione altrimenti dedita al rispetto di ogni possibile codice di bellezza. Ovvero, il bello oggi è insidiato, minacciato, ci sono forze occulte che gli tendono trappole, ma in definitiva lo riconquistano a una sfera di emozioni sottraendolo alla noia museale.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …