Renato Barilli: Il peccato di dipingere “più vero del vero”

30 Agosto 2007
Era giusto e opportuno che si dedicasse una scrupolosa retrospettiva a Carlo Fornara, il luogotenente di Segantini nel culto preciso o addirittura maniacale della tecnica divisionista. Vi ha provveduto Acqui Terme, nella sede tradizionale del Palazzo Liceo Saracco, avendone affidato il compito alla più nota studiosa del fenomeno divisionista in Italia, Annie-Paule Quinsac. Ma purtroppo in arte la fedeltà ai principi posti in tavola da altri non paga, e dunque la rassegna conferma la sostanziale mediocrità di questo artista. Che fu vittima di un fatale ritardo cronologico, infatti mal incoglie chi nasce fuori dai limiti di una giusta ondata generazionale. Il Divisionismo meritava di essere coltivato da coloro che erano nati attorno al 1860, col solito scarto di qualche anno in più o in meno, e infatti aderirono a quello stile, lo praticarono con alti risultati, per un verso Gaetano Previati, nato in un precoce 1852, e per un altro Pellizza da Volpedo, nato al limite (1868), già quasi in posizione di fuori gioco. La ragione è che i nati entro quella fascia di anni furono in grado di congiungere la minuzia della tecnica ‟divisa” a un valido motivo di compenso, a un anelito di specie simbolista. Ovvero, quelle griglie punteggiate, quelle filigrane preziose, quelle limature di ferro permettevano il serpeggiare, entro i loro fini contesti, di nobili e fluide curve, simili a dei lazos volteggianti nello spazio per andare a catturare altrettante presenze misteriche, e a stabilire insomma un dialogo tra terra e cielo. Ma il nostro Fornara vede la luce decisamente oltre il limite, nel 1871, e dunque non fa per lui l’ansia simbolista, i tempi sono scaduti, non sarà più possibile, per protagonisti così spostati in avanti, partecipare al clima misticheggiante della fin-de-siècle, dovranno tenere un cammino più duro e risoluto, magari adottando un punteggiato più marcato e sicuro di sé, spingendolo verso le rive delle soluzioni fauve. Anzi, meglio ancora abbandonarlo decisamente a favore di vaste stesure, come avrebbe fatto un campione assoluto di quella fase di trapasso, Matisse. Altrimenti, il divisionismo diveniva un inconcludente precisionismo, mosso dalla pretesa di fare ‟più vero del vero”, di chiudersi a riccio in un naturalismo coriaceo, in ritardo sui tempi. Questa in effetti fu la triste sorte riservata a Fornara, che certo ben capiva come, per dare respiro ai tocchi divisi, fosse necessario allearli a mosse sinuose, a valori spirituali, ma quando ci si provò, lo fece con mano pesante, senza alcuna grazia, come capita a chi vuol fare il mistico senza crederci più. Paradossalmente, verrebbe voglia di dire che il miglior Fornara lo si ebbe nei primi anni Novanta dell’Ottocento, quando, ventenne, ci diede una buona galleria di ritratti, ancora immuni dai canoni della divisione, ma al contrario appoggiati a dense pennellate, che riuscivano quasi a imporre una sintesi, ad afferrare i volti da vicino, immergendoli in sfondi essenziali capaci di limarne i profili. Forse agiva su di lui l’influsso di un buon ritrattista di quella stagione quale fu Cesare Tallone, maestro anche del grande Pellizza, e infatti, in quella fase pre-divisionista, si ebbe qualche parallelismo tra Fornara e il quasi coetaneo artista piemontese. Ma poi, a metà dei Novanta, avviene la fatale cattura del Nostro entro la scia del divisionismo lombardo sull’esempio di Segantini. Da bravo allievo il seguace vuole superare il maestro, ingrossando i fili di quella tessitura, ma così scompaginandola, privandola di aura, di magia. Sono particolarmente disastrosi, come già si accennava, i momenti in cui il discepolo vuole seguire le orme del maestro nel conferire alla tessitura dei filetti cromatici il plusvalore di una carica simbolica, si veda Da una leggenda alpina, del 1902, che evidentemente intende echeggiare le segantiniane Buone e cattive madri, dove però le donzelle appese ai rami della disseccata vegetazione invernale vi stanno appunto senza grazia, con mosse legnose, velleitarie, che quasi le degradano al ruolo di spaventapasseri. L’artista tenta di rifugiarsi negli ‟effetti speciali”, si veda l’altra visione ugualmente invernale de L’aquilone, ma in questo caso eccede nel ricorso a toni violacei, mentre la donna di pena che trascina in primo piano il fascio di legna da ardere non riesce a decollare verso valori sopramondani, resta a gravare sulla terra in panni di piccolo verismo. Quella data di nascita abbastanza avanzata, che poneva Fornara quasi in linea con altri grandi maestri e dominatori del Novecento, passati anch’essi per una fase divisionista, quali Balla, Mondrian, il già ricordato Matisse, gli avrebbe potuto consentire di agganciare, come avvenne per loro, il traguardo della sintesi fauve, un fare più largo e spianato, ma invece egli volle rimanere fedele a quella fattura franta, cincischiata. E così via, per quel coriaceo spirito di fedeltà l’artista rimase impermeabile alle varie occasioni che si presentarono successivamente e che avrebbero potuto permettergli di rientrare in corsa, approfittando degli Anni Venti del richiamo all’ordine e del Novecentismo. Ma egli aveva lo sguardo nostalgicamente rivolto indietro, a ritessere le stuoie del grande amico, con mano sempre più pesante e meno illuminata.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …