Gianfranco Bettin: Ghiaccio bollente sulle Dolomiti

11 Settembre 2007
Il maltempo, previsto per l'indomani pomeriggio, si era fatto vivo già prima del tramonto. La giornata era trascorsa limpida e luminosa, lungo l'ascesa tra sassi e ghiaie dal Pian dei Fiacconi fino ai piccoli nevai sotto il Gran Vernel e, dopo Forcella Marmolada, tra le rocce della cresta ovest. Lassù, mentre la parete precipitava dritta nell'abisso della valle, avevamo potuto avvistarlo, in forma di nuvole scure, di vento ruvido e freddo. Non sembrava un vento di luglio. Era carico di umori aspri, aggressivi. Dopo la ferrata, attraversando il nevaio per Punta Penia, verso le quattro del pomeriggio, le nuvole si erano infittite e poi fuse insieme creando, con il vento che avevano imprigionato, una vasta nebbia diaccia. Abbiamo percorso gli ultimi metri prima della Capanna, pregustando il sapore di un buon minestrone caldo, sotto una farina mulinante, ora umida ora ghiacciata, non pioggia, non neve, lo sfarsi di un inverno fuori stagione - o di stagioni ormai tutte fuori di sesto.
Volevamo vedere come stava la Vecchia, come portava, adesso, il suo bianco mantello. Avevamo prenotato due posti alla Capanna di Punta Penia - il rifugio e bivacco più alto delle Dolomiti, a 3340 metri - confidando di svegliarci molto presto l'indomani, evitando il cattivo tempo previsto per dopo mezzogiorno. Ma quel tramonto precoce e cupo lasciava presagire un peggioramento anticipato.
Volevamo scendere attraverso il ghiacciaio, il mantello bianco della Marmolada, da tempo insidiato dal global warming (e da opere sciagurate per il turismo di massa come l'orrida funivia per Punta Rocca, e da pratiche vipparole tipo l'elisky, come denuncia Mountain Wilderness). Il ghiacciaio, uno dei più imponenti delle Alpi, negli ultimi settant'anni si è ritirato di un chilometro. Negli ultimi venti l'accelerazione è stata impressionante, visibile a occhio nudo. A metà del secolo scorso nel gruppo della Marmolada era stata censita una decina di ghiacciai. Oggi se ne contano solo quattro (dati del Comitato Glaciologico Trentino, citati nel numero dedicato alla Marmolada di Meridiani Montagna, ora in edicola, pieno di notizie e di storie, tra cui un ricordo di Alexander Langer e del suo approccio lentius, profundius, suavius: il pensiero e l'opera di Alex sono sempre dei buoni rifugi, anche se lui ripari infine non ne ha trovati; o forse proprio per questo.
Pochi giorni prima eravamo stati a far visita a un altro ghiacciaio periclitante, quello del Fradusta, sul gruppo delle Pale di San Martino. L'avevamo trovato consunto, vastamente spogliato del manto di neve e, quindi, troppo esposto al sole e al caldo, di un grigiore malato, più piccolo di come lo ricordavamo anche in tempi recenti.
Molti anni fa - non tantissimi, dai: gli anni '80, gli anni supplementari della nostra adolescenza, prima che ci rompessimo di sentirla infinita e che, immagazzinato nel Dna il meglio del meglio e del peggio della nostra vera adolescenza, entrassimo ineffabili nelle età successive - il Fradusta era stato la nostra prima palestra di roccia e di ghiaccio. Ci si capitava non di rado. Porto Marghera non è poi lontana, per quanto sembri impossibile. Uno di noi, una volta, spavaldo e goffo, vi scivolò per decine e decine di metri e si fermò solo grazie a una roccia che gli frantumò il culo (reale) ma gli salvò la pelle (metaforica). La consunzione del Fradusta, desolante, era solo un acconto di quel che avremmo visto andando oltre, verso il Rifugio Pradidali (uno dei più vecchi delle Dolomiti, da poco restaurato ma con la gestione sobria e cordiale di sempre: è stato il primo rifugio in cui abbiamo dormito quando, dal nostro acido bronx e dai fuochi e dai fumi di fabbriche e strade che allora nessun fiero e affettuoso Springsteen indigeno cantava come my hometown, fuggivamo verso cieli e sentieri più puliti, con in testa piuttosto echi dei Clash - burning e calling - ma anche i primi versi strimpellati sotto casa dagli imberbi e già stralunati Pitura Freska: Marghera sensa fabriche sarìa più sana, 'na jungla de panoce pomodori e marijuana - in effetti ci sarebbe bastato anca un bosco de pini, o 'na cengia de mughi).
Scendendo dal Fradusta si attraversa un altopiano lunare, in cui le rocce, i sassi, i frantumi sembrano formare un lago pietrificato. Sotto gli scarponi ne senti la durezza, ma agli occhi tutto è come liquido, un'ondulare di schegge e pieghe. Passato quel miraggio avremmo dovuto vedere, in una valletta che gli ha sempre fatto da scrigno, un piccolo lago vero. C'eravamo stati un sacco di volte. Come mai non si vedeva, dal sentiero che sbalzava tra le rocce? Non si vedeva, abbiamo poi capito, perché era scomparso, dissolto nell'aridità che riduce a un rivolo esausto il ruscelletto da cui nasce, un tempo alimentato dai nevai sovrastanti, ora seccati anche quelli. Non era che una pozzanghera, adesso, il laghetto sulla via del Pradidali, e faceva male vederlo, ricordando com'era, un gioiello d'acqua invitta, fredda, pura, l'affiorare della vita fertile sulla luna.
Così temevamo il peggio anche per il manto della Vecchia, glorioso e tragico - si sono massacrati a lungo, lassù, nella Grande Guerra. La notte, intanto, su Punta Penia si era scatenata una vera tempesta, capace di spalancare un paio di finestre della Capanna e di mandare tutto all'aria nelle stanze in cui aveva fatto irruzione. Naturalmente, di partire all'alba neanche a pensarci. Anche a mattino fatto sarebbe stato sconsigliabile. Visibilità ridottissima, nubi gonfie vaganti tra banchi di nebbia, e pioggia e nevischio, turbolenze ghiacciate - eppur bisogna andar. Dovevamo rientrare, il tempo libero era quello che era, lo spazio di un mattino. E infatti siamo andati, scarponi, ramponi, corda, piccozza. Facile superamento della morbida cresta nevosa, regolare discesa della tosta Schena de Mul, poi giù per il ripido canalino roccioso, con l'aiuto del cavo che scende dritto in fondo al ghiacciaio. Troppo in fondo, in verità. C'è un tratto di corda in più, che invece di fermarsi all'altezza della pista scende oltre, in un punto vago e morto. Ne intuivamo l'inutilità, e la deviazione che implicava rispetto alla via normale. Così abbiamo aggirato la rupe che il cavo discende dritto e ci siamo avviati, costeggiando la roccia, verso la fine della ferrata, piccozza in mano, legati con la corda, io davanti al mio compagno di escursione, vecchio ragazzo del nostro piccolo bronx, adesso responsabile dei suoi servizi sociali (chi l'avrebbe mai detto, all'epoca; in realtà, l'avremmo proprio detto, almeno noi).
Non è stata una buona idea. Un eccesso di scrupolo, diciamo. Si vedeva pochissimo. Nuvole e nebbie erano grigie, e grigio e bianco era il ghiacciaio, ed era tutto ciò che vedevamo, quell'ipnotico mix di non colori, con gli occhi contemporaneamente spenti dal grigio e abbagliati dal bianco. Scendevamo sprofondando nella neve. Sembrava reggerci, ma era fradicia e debole, e ha ceduto quasi subito, trascinando giù prima me e poi l'altro, che nella caduta mi ha oltrepassato, per fortuna solo sfiorandomi la schiena con i ramponi (altrimenti me l'avrebbe ricamata di brutto). Sotto, intanto, sentivo aprirsi un vuoto, che temetti fosse un seracco, e che lo era, ma che non sapevo quanto fosse profondo, se trenta centimetri o trenta metri. Sotto il mio peso, il ghiaccio si è dapprima aperto e poi, d'improvviso, appena la gamba sinistra ci si è infilata dentro si è richiuso di colpo, immobilizzandola (la destra la tenevo sopra la neve, con alto e ridicolo equilibrismo involontario). È stato come se uno squalo senza denti, spuntando dal ghiaccio, mi avesse afferrato la gamba con la bocca, senza divorarla, bloccandola tuttavia in una morsa gelida. C'è voluto un quarto d'ora di lavoro di mani e piccozze per tirarla fuori.
La pista, dunque, era più su. L'avevamo, incautamente, verificato. E avevamo anche capito che il ghiaccio è duro ma anche plastico, si apre e si richiude, si sposta, gioca con la neve e con le rocce, è sensibile e vivo, e soffre. Per questo, scendendo tra folgori e tuoni o sotto una grandine che sembrava mitragliata dai fantasmi austro-ungarici acquartierati qui dal '15-'18 o, bene che andasse, tra pioggia e nevischio, dimenticata la piccola disavventura del seracco, abbiamo guardato con tenerezza e apprensione quel che resta del grande ghiacciaio. Grigiastro, verdastro, per ampie parti senza più coltre nevosa, con rocce affioranti ovunque e spaccature, fenditure, gole che si aprivano nelle morene formate dal suo ritirarsi, sembrava davvero in una stagione assai difficile della propria storia millenaria. Era una vera beffa che lo sembrasse perfino in un giorno così, che non ricordava affatto il global warming, anzi. Un giorno che infine si è chiuso sotto una pioggia a catinelle. Un'abbondanza d'acqua che, lo sapevamo, non lo avrebbe affatto rinvigorito, nutrendolo di ghiaccio e di neve nuovi e duraturi. Di lì a poco, l'avrebbe bruciata il caldo della lunga stagione arida che anche quassù è arrivata.
Post scriptum. Le Dolomiti, come tutti i buoni e tenaci ambienti che, per quanto malandati, assomigliano ancora al meglio di se stessi, riservano comunque magnifici momenti. Non mi va, perciò, di chiudere la pagina con la stagione arida. Preferisco finire con una fiabesca infiorata di rododendri, nel verdeggiare vivido dei mughi, e con il rigoglio dei ruscelli glaciali e nivali, un musicale trionfo d'acqua, dapprima rupestre e poi prativo e boscoso, incontrati nei giorni migliori dell'estate, in una tranquilla escursione tra Croda da Lago e Beco de Mezodì conclusasi al Rifugio ‟Gianni Palmieri”, sul bordo di un laghetto in forma smagliante, tra i più suggestivi delle Dolomiti.
Gianni Palmieri, bolognese, alpino e poi capo partigiano, è stato ucciso dai nazifascisti nel 1944, a 23 anni. È un ottimo rifugio, quello a lui dedicato lassù, tra le rocce e i rododendri.

Gianfranco Bettin

Gianfranco Bettin è autore di diversi romanzi e saggi. Con Feltrinelli ha pubblicato, tra gli altri, Sarajevo, Maybe (1994), L’erede. Pietro Maso, una storia dal vero (1992; 2007), Nemmeno il destino (1997; 2004, da cui è …