Renato Barilli: La Bibbia delle infinite parole dipinte

27 Dicembre 2007
Il Museo d’arte di Rovereto e Trento (MART) festeggia i primi cinque anni di vita con un bilancio eccellente, confermato da quanto la neonata istituzione offre in questi giorni nei suoi vasti spazi. Già ho ricordato la mostra dedicata al padre fondatore, Fortunato Depero, celebrato in un suo aspetto che poteva apparire minore e marginale, la grafica pubblicitaria, ma che col tempo si è rivelato prioritario. Ed ora ecco un’enorme rassegna dedicata alle Parole nell’arte, che oltretutto ha il merito di presentare un materiale destinato a rimanere a lungo nelle sale del Museo, in quanto ottenuto attraverso depositi e comodati (a cura della stessa direttrice Gabriella Belli, affiancata da Giorgio Zanchetti e da tanti altri collaboratori).
Ma perché, questa centralità della presenza della parola, dell’elemento verbale, nelle avanguardie vecchie e nuove del secolo appena trascorso? Per intenderla bisogna richiamare aspetti di storia della cultura di lunghissimo periodo, rifarsi addirittura a una scelta cruciale che l’Occidente, e per tutti noi la Grecia, hanno compiuto circa un millennio avanti Cristo, accettando dai Fenici l’alfabeto, ovvero un sistema di scrittura fonetica, dove le parole risultano collegate ai suoni. Da qui una loro totale scissione rispetto al mondo delle immagini, ovvero la nascita di una dissociazione fatale che ha portato i due versanti ad allontanarsi sempre più l’uno dall’altro, per effetto di una polarizzazione agli estremi. L’alfabeto, da noi, si è reso neutro, povero, di scarso appeal estetico, ma tanto funzionale. Le immagini a loro volta, dovendo confidare in se stesse senza l’aiuto del supporto verbale, hanno puntato su un mimetismo sempre più radicale, fenomeno conosciuto soltanto da noi occidentali, dapprima nell’arco greco-romano, e poi nel percorso rinascimentale, dal tardo medioevo su su lungo l’età moderna. Le altre culture, a cominciare dall’Estremo Oriente, hanno praticato invece una commistione dei due ambiti, grazie ai sistemi ideografici, il che ha portato la loro scrittura a mantenere vasti coefficienti di bellezza, sinuosità, scapricciatura, in quanto appoggiata a icone, ma d’altra parte queste, proprio per andare al matrimonio con le lettere, hanno dovuto tenersi su un registro magro-stilizzato. Aggiungiamo che presso di noi occidentali la spaccatura tra i due versanti è stata esasperata da due innovazioni simultanee, la tipografia di Gutenberg e la scatola prospettica di Leon Battista Alberti, non per nulla un audace culturologo quale Marshall McLuhan ci ha insegnato ad associare i due grandi apripista. Ma questo divorzio consensuale è risultato superato col sopraggiungere, nell’età contemporanea, della tecnologia di specie elettronica, che ha cancellato il confine fatale. E così gli artisti visivi si sono riappropriati di quel bene perduto, le lettere, offrendole da sole o associandole, appunto, a icone smagrite ovvero astratte. Ecco la profonda ragione per cui non c’è stato ismo, nel lungo cammino delle avanguardie vecchie e nuove, che non abbia fornito un suo valido contributo al superamento del tradizionale fossato, ed ecco la necessità di redigere il presente poderoso catalogo. Che infilza con sicurezza gli ismi storici, Futurismo, Dadaismo, Surrealismo, supera indenne e anzi trova nuove linfe oltre la metà del secolo, come testimoniano i vari fenomeni che si richiamano al lettrismo, alla poesia prima concreta e poi visiva, a Fluxus, al libro d’artista, al concettuale, alla Narrative Art.
Ma proprio per l’enorme rigoglio di quest’albero fronzuto conveniva forse che, verso la cima, cioè venendo ai nostri giorni, i curatori avessero il coraggio di dare qualche potatura, o meglio, tentassero di raccoglierne le sparse chiome in ciuffi e rami più consistenti, qui invece si abbonda in una pur utile frammentazione dei reperti, il che però implica anche che taluni grandi autori ricorrano più volte, in paragrafi distinti, cosa che certo risponde a una legittimità elencatoria, ma rende alquanto confusa la comprensione globale del processo. Forse, venendo alla copiosa vegetazione posteriore al fatidico ’68, sarebbe stato meglio raccogliere gli esiti straripanti della pianta sotto due categorie essenziali, collegate proprio ai due poli del continente verbale quali ci sono stati additati dal signore della linguistica contemporanea, il Saussure: il significato e il significante. Infatti, per dirla in breve, tra gli infiniti cultori della parola, nelle ricerche degli ultimi tempi, c’è chi ha privilegiato il significato, dandoci reperti nudi, schematici, con noncuranza per le modalità di scritture, ed ecco allora i concettuali Kosuth e Barry e Weiner e Ben, o da noi Giuseppe Chiari. E c’è invece chi ha calcato la mano sul significante, ridando all’atto dello scrivere ogni possibile spessore di materia, di manualità, di ostentazione del supporto su cui viene vergato, e stanno in questa categoria tutti gli esempi ricavabili, per esempio, dall’Arte povera, nonché da un nostro estroso protagonista degli anni ’80 come Mario Dellavedova, che verga le lettere con saliere infisse nella sabbia, o con occhiali da sole. Per non parlare dell’ingegnosa gestualità con cui Ketty La Rocca usava comunicare i messaggi verbali facendone delle drammatiche performances degne di essere accompagnate da riflettori di scena. E così via, siamo in presenza di una Bibbia, è il caso di dirlo, infinita.

Renato Barilli

Renato Barilli (1935) già docente di Fenomenologia degli stili all’Università di Bologna, è autore di numerosi volumi di estetica, fra cui: Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (il Mulino, …