Guido Rampoldi: Afghanistan. La forza dei Taliban e la debolezza di Karzai

18 Settembre 2009
Quel che forse è più difficile accettare è l’atroce banalità della strage. Si sospetterà che i Taliban abbiano mirato proprio agli italiani: ma se davvero li avesse guidati un raffinato calcolo politico, avrebbero colpito soldati tedeschi o canadesi.
Essendo al momento tedesca e canadese le opinioni pubbliche più provate dal conflitto afgano. Ci si domanderà se l’ordigno impiegato rimandi a forniture iraniane, a cointeressenze straniere: ma basta scavare nei campi ancora minati dal tempo dell’occupazione sovietica per trovare quelle ottime mine italiane da cui gli artificieri della guerriglia ricavano, assemblandone tre, bombe micidiali. Si griderà, per ingenuità o per voluttuoso catastrofismo, che ormai i Taliban sono padroni di Kabul. E anche questa bugia sarà un espediente per evitare una verità semplice e sinistra: in un Paese da trent’anni in guerra, perciò pullulante di armi e di armigeri, è relativamente facile organizzare attentati e ammazzare soldati occidentali. E’ accaduto tante volte, accadrà ancora.
Quei lutti non contribuiranno alla popolarità dell’intervento Nato presso le nostre opinioni pubbliche, ma certo non risolleveranno le sorti dei Taliban. Un sedicente movimento di liberazione nazionale che dopo sette anni vede il proprio consenso presso gli afgani al livello di un miserabile 6% (così il sondaggio citato da un attendibile centro-studi americano, il Brookings), è una caricatura. E infatti i Taliban ormai praticano principalmente quella versione quasi caricaturale della guerriglia che è il terrorismo, per giunta nella versione più autolesionista: quale afgano sano di mente può rallegrarsi per un attentato in cui muoiono soprattutto suoi compatrioti? E tuttavia la "propaganda delle armi" offre ai Taliban anche un vantaggio, laddove incrocia, intenzionalmente o no, le incertezze delle opinioni pubbliche occidentali, l’avversione al rischio delle classi dirigenti europee, e soprattutto in queste settimane, il caos della politica afgana.
Dopo le presidenziali di agosto gli osservatori europei hanno richiesto il riconteggio dei voti in un decimo dei seggi, suscitando le ire di Karzai, che si riteneva vincitore. Un compromesso possibile prevede un ballottaggio in primavera, e un successivo ingresso nel governo presieduto da Karzai del suo rivale, Abdullah, in posizione preminente. In ogni caso, le stragi di queste settimane aggiungono immagini scoraggianti ad una situazione già di per sé confusa. E rafforzano in Occidente quel partito del disimpegno che pare mettere d’accordo destre "realiste" e sinistre anti-americane, conservatori e terzomondisti, islamofobi e pacifisti. Uniti da due malintesi.
Il primo: l’alternativa non è tra la guerra e la fuga, tra andare avanti e tornare a casa. Non fosse altro che per irrevocabili ragioni simboliche, il ritiro della Nato non è considerato nell’orizzonte delle possibilità da Washington e dai governi dell’Europa maggiore. Questi ultimi possono fingere di prendere in considerazione l’eventualità del rimpatrio, soprattutto quando si avvicinano le elezioni, ma non possono dare seguito a quell’ipotesi senza esporsi ad un isolamento suicida. Invece l’Alleanza atlantica potrebbe essere tentata dall’abbandonare al suo destino il sud dell’Afghanistan, lì dove la presenza dei Taliban è maggiore e più alto il prezzo di sangue pagato dai contingenti Nato. Questo permetterebbe di diminuire le perdite, ma avrebbe due controindicazioni formidabili: la dissoluzione dell’Afghanistan secondo linee etniche, e uno stato di anarchia militare che contagerebbe un terzo del Pakistan e perfino territori iraniani. Lo scenario può sembrare fantasioso, ma è tra gli incubi che affliggono l’establishment pakistano. Islamabad non ha dimenticato le mappe prodotte già nel 1996 dalla Rand Corporation, dove appariva un nuovo Stato, il Belucistan, disegnato unificando pezzi di Iran, di Pakistan e di Afghanistan.
Come si vede, e qui siamo al secondo malinteso, non si può discutere di Afghanistan se non all’interno di una geografia assai più vasta. Quella che chiamammo "guerra al terrorismo" appare invece ai governi dell’area un disordinato sovrapporsi di competizioni regionali: India–Pakistan, Pakistan-Iran (è sciita o sunnita l’islam nucleare?), Cina–India (per l’accesso all’oceano ancora nominalmente indiano), Usa-Iran, solo per restare agli antagonismi più roventi. E’ in gioco la logistica della regione – strade, gasdotti, portata dei fiumi, proiezioni geopolitiche. Le dinamiche offrono incentivi tanto ai conflitti quanto ad inedite collaborazioni. Da qui l’insistere di alcune capitali europee sulla proposta, in origine italiana, per una conferenza regionale, o comunque per una soluzione globale della crisi afgana. Ma quel progetto non avanza.
In una prospettiva ancora più ampia, Kabul è quasi all’apice di quell’arco di instabilità, dal Medio Oriente al Pakistan, in cui l’amministrazione Bush ha prodotto i maggiori guasti. I prossimi mesi diranno se l’Occidente dovrà pagarne le conseguenze, e quanto. La concatenazione fatale potrebbe aprirsi nel gennaio prossimo, quando gli iracheni saranno chiamati a ratificare o abrogare il Sofa, Status of Forces Agreement, l’accordo che da luglio autorizza la presenza delle truppe statunitensi in Iraq.
Poiché il referendum è stato sovrapposto alle elezioni politiche, i partiti maggiori cavalcheranno il rancore anti-americano largamente diffuso tra la popolazione. Se il Sofa non superasse quella prova, i marines dovrebbero lasciare la Mesopotamia entro il 2010. Non è difficile immaginare quali suggestioni susciterebbe quel finale inglorioso a Teheran, nell’islam radicale, tra i Taliban afgani e pakistani.
Per tutto questo discutere oggi di Afghanistan significa discutere innanzitutto di Occidente. Se meriti un futuro oppure la storia suggerisca altre geometrie internazionali. Se sia cinico riconoscerne e difenderne gli interessi forti, se sia ingenuo o pretestuoso collegarlo ai diritti umani. Se debba chiudersi nei suoi confini oppure affrontare il mare aperto. E se il disorientamento delle sue opinioni pubbliche, la fiacchezza delle sue classi dirigenti, dopo un secolo non avvicini l’inverarsi della vecchia profezia racchiusa nella formula: il Declino dell’Occidente.

Guido Rampoldi

Guido Rampoldi è giornalista e inviato speciale del quotidiano “la Repubblica”. Esperto di Medio Oriente e mondo islamico, nel 2007 ha vinto il premio Barzini per l’inviato speciale. Ha scritto …