Un estratto da
Lontano dagli occhi, di Paolo Di Paolo

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Vicino

Un uomo che sta per diventare padre non lo riconosci da niente. Nessuno gli cede il posto, nessuno gli fa largo, nessuno suppone di doverlo proteggere, o compatire. Può uscire con una ragazza, bere con lei, fare il brillante: nulla, della sua attesa, sarà tradito, nulla sarà svelato. Può lui stesso, per qualche ora, dimenticare, e non sarà certo il corpo a ricordarglielo. Affamato, eccitato, stanco, però come sempre.

Se infine non si troverà lì – nei pochi lunghissimi istanti in cui, dal corpo della madre, verrà alla luce il figlio – niente potrà avvertirlo: non un presagio, un campanello, un dolore, un acquazzone, niente. Non resteranno segni addosso. Dovrà, per qualche via, essere raggiunto dalla notizia: svegliandosi nell’albergo lontano in cui è fuggito; o sentendo di perdere un battito, prigioniero di un mezzo di trasporto ormai in ritardo.

E comunque, è nato, è nata, non sarà come dire sei padre. C’è una strada, un ponte da percorrere, corto qualche mese o magari mezzo secolo.

Così, in questa storia, non mi basta sapere l’emozione confusa – e in ogni caso canonica, fra incredulità e sconcerto – di quando all’Irlandese, a Ermes, a Gaetano, la rispettiva ragazza ha comunicato di essere incinta. Sarebbe più interessante capire se, quando e come ciascuno di loro ha maturato coscienza della trasformazione. C’è stato forse un contatto, un’ansia diversa, qualcosa come un clic, una notte insonne?

Hanno fatto l’amore già parecchie volte (Ermes un po’ meno), e non ne hanno tenuto il conto; nessuno lo fa. Memorabili? Qualcuna sì, certo, anche se poi alla lunga tutto si impasta un po’ – la nube dello stesso desiderio: le birre, la macchina, oppure su in casa, di notte, la domenica pomeriggio, le lenzuola umide, il cesso di un locale.

Non saprebbero dire, se interrogati, quando sia accaduto. Forse l’Irlandese sì, per via del panico che l’ha preso, scoprendo di avere perso il preservativo. E comunque, non è stata quella volta. Gli altri due diciamo pure che non ci hanno fatto caso, voltandosi subito su un fianco, o aspettando giusto il tempo necessario per farlo di nuovo, più forte, a occhi chiusi.

Poi se ne sono tornati nel mondo, nell’estate che stava per finire, ignari per settimane.

L’Irlandese, con le sue unghie sempre un po’ nere e i suoi taccuini, i cartoni di vino da senzatetto, le poesie lasciate a metà.

Ermes, la fine della scuola, la certezza che fuori di lì andrà meglio, e anche se c’è la leva di mezzo, non importa. Ha la fissa di trovare lavoro al microfono di una radio. Ama la Roma, ama la musica. E ormai, a forza di sentirselo dire, si è convinto di avercela davvero, una bella voce.

Gaetano, lui, per ora, inchiodato al bancone di una tavola calda su via Taranto, non sa nemmeno bene cosa volere. Senza la sterminata collezione di fumetti di cui prendersi cura, come di un gatto, boh, forse certe sere, quando stacca, si stenderebbe sulle rotaie del tram.

 

Se ti sollevi da terra, se cerchi di stare dietro alle loro traiettorie osservandoli dall’alto, come da un terrazzo che domina un quartiere, da un elicottero, a un certo punto, comunque, li perdi.

Basta che svoltino a un angolo, o che diano più gas al motorino, che entrino in un supermercato, prima o poi la città li inghiotte e li rende invisibili. C’è, per ogni giornata, una porzione ampia di minuti preclusa a chiunque e nota solo a noi, spesso del tutto irrilevante, in ogni caso segreta.

L’Irlandese in una vasca da bagno, a casa del tizio che lo ospita – le pareti scrostate e giallastre, la casa di uno che, come lui, non bada troppo all’igiene, e ha vent’anni di più, scrive di libri su una rivista che non paga e dà ripetizioni; gli lascia il divano da amico, così dice, ma forse è per interesse, cioè per desiderio. L’Irlandese l’ha capito e il pensiero gli dà la nausea, allora apre tutt’e due i rubinetti, più che può, e si sciacqua con foga, sfrega forte la barba, si prende quasi a schiaffi. Apre gli occhi, ha mezzo allagato il pavimento.

Ermes che si chiude, dopo cena, in camera sua – scuro di rabbia, senza un vero motivo. Risale nel rutto il sapore di cipolla dell’insalata, che ha masticato come si mastica il ghiaccio.

Gaetano che bestemmia fra i denti, uscendo dal tabaccaio dove non ha comprato le sigarette. Credeva, rovistandosi in tasca, di cavarne una banconota da cinquemila lire, sicuro ci fosse, accartocciata, invece niente.

Qualcosa, in tutto questo, mi riguarda.

Il secolo sta consumando il suo ultimo quarto. Resta misterioso essere vivi proprio adesso, caduti nel tempo in modo da trovarsi ad avere chi ventinove, chi diciotto, chi ventisei anni nell’anno 1983, e non è chiaro, è impossibile decidere quale età anagrafica convenga, rispetto a una certa epoca di questo pianeta. Sempre che abbia senso la domanda. Sempre che abbia senso la propria storia fatta con i se.

Di indubitabile c’è che, a questo punto, l’Irlandese, Ermes e Gaetano, dispersi nella folla, potrebbero sottrarsi alla parte che li riguarda nella venuta al mondo di un altro essere umano. Ciò che l’ha determinata è un evento già superato, in una sequenza di eventi che d’ora in avanti li esclude.

Perché poi, da qualche parte – visibili, stupefatte, e sole, in quella devastante metamorfosi –, ci sono le madri.

 

Aprile

[…]

Ancora sull’ingresso, Giovanna la abbraccia. Non dice niente, nemmeno ciao. La stringe. Luciana, che gli abbracci non li ama, a questo non si sottrae. Resta lì a lungo, con il mento sulla spalla di Giovanna, con il naso nel profumo forte. Resta fino quasi a sentire un po’ di nausea, e a sentire che le viene da piangere. Allora, per smorzare la commozione, dice all’amica una frase che non è da lei: “Non badare al disordine”. Giovanna si mette a ridere, una risata eccessiva.

“Mi stai prendendo in giro?”

“No, non ti sto prendendo in giro. La casa fa schifo.”

“E noi ci siamo mai preoccupate che la casa faccia schifo?”

Luciana si sdraia sul divano, si scusa un po’ anche di questo: “Non so più come mettermi”.

“Non ti lamentare troppo,” le dice Giovanna, ridendo ancora con gli occhi dietro alle lenti. “Ti ricordavo più divertente.”

Cominciano a parlare di lavoro. Giovanna prova a discutere di tutto fuorché della pancia di Luciana. Racconta com’è diventato difficile sopportare il tizio che le sta addosso lì al ministero: la cosa che più le dà fastidio è il suo alito, e un dettaglio che trova penoso e allo stesso tempo buffo, i peli della barba più lunghi sotto il mento.

“È il primo segno di un uomo quando invecchia. La barba fatta male. I peli che sbucano dalle narici.”

“Quando spuntano dalle orecchie è anche peggio,” aggiunge Luciana. Si rimette seduta, stringe le mani attorno alla tazza da tè un po’ sbreccata. Fa parte di un servizio che le aveva regalato suo padre per festeggiare la casetta che si era presa in affitto. L’unico che avesse capito il suo desiderio. Sua madre lo trovava assurdo. Lei si era giustificata spiegandole che era una situazione provvisoria. Ma in effetti era ancora là. Le succedeva spesso, le sembrava di essersi solo distratta un po’ – un paio di giorni, due anni – e si era ridestata in una situazione che, nelle premesse, doveva durare pochissimo, niente.

Giovanna continua a parlare dei suoi guai in ufficio, di un telefax che sta imparando a usare.

Toccherebbe a Luciana dire qualcosa. Invece si alza, apre la finestra. “C’è odore di chiuso,” dice, ma lo sente solo lei.

Di Giovanna le è sempre piaciuta la scioltezza, la chiamerebbe così; e le ha sempre invidiato l’impressione che dà, di non tenere troppo in conto i propri difetti. Per dire, anche dei fianchi, che già a vent’anni aveva piuttosto larghi, se ne frega. Sembra che le cose la tocchino solo un po’: non troppo, non al punto di permettere che le facciano male. Muove le mani velocissima, aggiusta di continuo gli occhiali sul naso, non sta ferma, e forse il trucco è questo, non stare fermi. Stare fermi, stare chiusi, stare in gabbia è il contrario di vivere.

“Dopo facciamo una passeggiata?”

Se ne esce così e Giovanna è un po’ spiazzata.

“E dove andiamo?”

“Anche solo al bar e ritorno.”

“Abbiamo appena preso un tè.”

“Che ti importa.”

Una volta che Giovanna le ha proposto di andare a comprare insieme due o tre vestitini per lui, Luciana si è innervosita. Perciò, l’amica non torna sull’argomento. E questo sì che è un paradosso, un inghippo che infatti finisce per bloccare la conversazione, per renderla innaturale.

Giovanna fissa qualcosa sulla parete. Luciana alza gli occhi. Due o tre minuti sembrano lunghissimi. Si sente nettamente il gorgoglio di uno stomaco. Visto che è il suo, Luciana ha il pretesto per cambiare discorso, lamentandosi del bruciore che non le dà tregua.

“Magari è anche l’ansia per la situazione al giornale.”

“L’ansia è un po’ per tutto. C’è solo quella.”

Giovanna allunga un braccio verso il tavolino basso per recuperare una copia del giornale. Se lo rigira fra le mani come un enorme origami.

“Si vede che non li leggi mai,” scherza Luciana. La aiuta, e le indica l’ultimo articolo.

“Hai mai pensato di buttarti sulla letteratura? Sarebbe più comodo.”

Luciana scuote la testa. Giovanna non aspetta la risposta e aggiunge: “Io sì”.

Si è iscritta a un corso di scrittura, in una libreria dietro piazza Mazzini, è un buco ma è carina, due ore ogni giovedì. Anticipa l’obiezione e se lo dice da sola che ormai non c’è un corso che non abbia fatto – cucina, cucito, meditazione. Che altro? “Ah sì, ti ricordi quando ho fatto quello di judo?, mi dicevate che ero pazza.”

Però queste lezioni sono meglio, sono una sorpresa tutte le volte. La tipa, la scrittrice, dà un’indicazione e lascia mezz’ora di tempo, non di più. L’ultimo giovedì ha chiesto di trascrivere un sogno. O meglio, di farne un racconto.

“E che sogno hai raccontato?” domanda Luciana.

“Me lo sono inventato. Io i sogni non me li ricordo mai. È una cosa che mi fa rabbia, quando ci penso. E così ho descritto un sogno erotico, che poi è un sogno che faccio da sveglia.”

“Non voglio saperlo.”

“Peggio per te. E tu, che sogno avresti scritto?”

Luciana è indecisa se raccontarlo. È un sogno vero, il suo, e l’ha atterrita.

C’era lei con le gambe aperte, urlava. Qualcuno, finalmente, estraeva il bambino. Lei si tirava su appena con la schiena, per vedere – e c’era questo neonato insanguinato che cominciava a correre, scappava, e più scappava più cresceva, diventava un bambino grande. Lei lo inseguiva, lui non si voltava, le dava le spalle. Quando finalmente lo raggiungeva, lui si girava di scatto, aveva una faccia come sfocata, impossibile da descrivere. E continuava nella sua corsa. No, non glielo racconta, non vuole raccontarlo. Liquida l’argomento con un’alzata di spalle. Aggiunge: “Faccio solo sogni di merda”.

 

Cala nel salotto una specie di polvere triste, come se si fosse aperta di colpo una crepa nel soffitto. Un cielo grigiastro si agita fuori. Tutto è più difficile di come per qualche ora è sembrato.

Luciana tende l’orecchio quando sente il ronzio della motoretta del postino. “Sarà un libro,” dice. “È bastato scrivere un paio di recensioni e hanno cominciato a mandarmeli in omaggio. Non è male.”

Invece, spera che sia una lettera dell’Irlandese.

Non riesce a non pensare a lui, non riesce a nascondere la foga con cui separa le buste, le scorre in fretta, le lancia sul divano. Forse dovevo chiedergli di vivere insieme. Forse dovevo fargli capire meglio le cose, pensa adesso. Se lui torna, ce la farò. Qualche volta si chiede se non sia soltanto una stupida ossessione. Che ti prende?, si domanda, come lo dicesse a un’altra. Che cosa vuoi di preciso? Lui? Una famiglia con lui? Il desiderio che continua a provare – una sete – la fa sentire incompleta. Qualche volta tenta di sfogarlo, ma insieme al piacere arriva una specie di contrazione nella pancia, che la lascia più sola e colpevole.

Manda giù la saliva, si sfrega il collo chinando la testa, e per fortuna un dettaglio delle scarpe di Giovanna, un fiocco, le dà lo spunto per riemergere, con una battuta, dallo sconforto.

 

Fuori, camminano una accanto all’altra con lentezza eccessiva, come in punta di piedi, senza una direzione. Si fermano a guardare le vetrine, quasi una per una, fanno il gioco di puntare gli abiti impossibili, quelli che non possono permettersi: il prezzo, i colori. La taglia!

Contemplano divertite la concentrazione totale, estatica, di una signora che, alla fermata dell’autobus, lecca un cono gelato, benché oggi il tempo inviti più a qualcosa di tiepido. Socchiude gli occhi, è tutta in quel gesto.

Nel frattempo, ha cominciato a piovere. Niente di che, però non hanno preso l’ombrello. Una goccia scivola precisa, tra stoffa e pelle, sul collo di Luciana: una sensazione di gelo che pare arrivare da lontano, da un’altra epoca, una stilla di era glaciale.

Si infilano nel primo bar, come previsto, tanto più che Luciana, alle solite, deve fare pipì. “Sto morendo,” dice.

Senza nemmeno chiedere un caffè, fa un gesto chiaro col dito, a cui subito risponde quello del cameriere. Occupato. Alla buon’ora sbuca, finalmente, una ragazza: giovanissima, chiara di capelli, molto truccata. Anche Luciana, adolescente, faceva così: andava a truccarsi nei bagni dei bar. Usciva di casa dopo le quattro del pomeriggio, dicendo di avere finito i compiti, ficcava in una borsa la trousse, e spesso pure un cambio. Giovanna le teneva la porta, e lei sbucava come da un camerino, ed era un’altra. Più adulta, vagamente più – sicura no, ma protetta, in maschera.

Ha invidiato la ragazza bionda. Entrando, si è sentita avvolta da una vampa calda – profumo e sangue mestruale – che, prima di nausearla, l’ha irritata come un’ingiustizia.

 

Giovanna vorrebbe accompagnare Luciana dal ginecologo, e prova a chiederglielo.

“La prossima volta.”

“Dici sempre così.”

“Te lo prometto.”

“Non mi fido.”

“Giovanna.”

“Sì.”

“Non sto bene.”

Lo dice – tetra, spaventata – cercando gli occhi dell’amica. Giovanna vorrebbe risponderle lo so, lo capisco, lo vedo. Invece le dice: “Non manca molto, devi avere pazienza”.

“Non è questo.”

“E cos’è allora?”

“Ho paura di impazzire.”

L’amica tace. Stringe le labbra, si passa le dita sugli occhi, dietro le lenti.

“Sento di non farcela,” dice Luciana.

“Penso che sia normale.”

Normale è una parola che con la mia vita non funziona più. Voglio dire, io mi sforzo…”

“Lo so.”

“Mi sforzo di prendere le distanze da quello che mi sta capitando, ma…”

“Non puoi prendere le distanze da quello che ti sta capitando.”

“Ecco. Forse è questo il problema, non posso. Però ci provo, credimi. E sai cosa? L’idea che lui possa lasciarmi mi preoccupa più di tutto il resto.”

“Senti, Luciana. Tutto il resto. Che cazzo di espressione è tutto il resto?”

Giovanna ha alzato il tono di voce, è più acuto. “Non riesci a vedere nient’altro. Come se da lui dipendesse la tua vita.”

“Lo so che da fuori…”

“Da fuori niente, Luciana. Da fuori, da dentro.”

“Forse non capisci.”

“Capisco, te lo assicuro. Capisco che non sei lucida. Non sembri più tu, Luciana. Non puoi dipendere da lui. Non sai nemmeno dov’è. Non sai in quale buco di culo di mondo sia.”

“È a Dublino.”

“Sta bene là. Perché non torna?”

“Non lo so. Ma tornerà in tempo, me l’ha promesso.”

“È scappato quando gli hai detto di essere rimasta incinta.”

“Non è scappato. Lui fa così. Va, torna.”

“Uno spirito libero!” ride ironica Giovanna, e agita le braccia.

“Uno spirito libero! Posso farti una domanda?”

“Fammela.”

“Pensi davvero che lui si senta legato a te? Vi conoscete da quanto? Sei mesi?”

“Dieci. E ti assicuro che sono stati così… così incredibili da sembrare molti di più.”

“Non sai nemmeno se il padre è lui.”

“Lo è.”

“Non puoi esserne sicura. E c’è quel povero cristo di Ettore che ti sta dietro, ti aiuta, si fa in quattro e tu...”

Si interrompe, si trattiene. Non vuole farle la predica.

Non le piace la parte dell’amica razionale, pedante. Quella che mette i guantini e non si sporca con le cose, la professoressa di disegno tecnico. Ha ascoltato troppe volte la versione di Luciana su questo Irlandese – la storia del poeta che l’ha fatta sentire più viva.

La storia di quello che ti cambia la vita, che cambia anche te, quello di cui non potrai mai liberarti. Basta. Lui non c’entra niente con te, non può, non vuole darti niente, non lo vedi? Dovrebbe dirle questo, di nuovo. Le dice: “Io lo so cosa provi, lo so. Però aspetti un bambino, e invece di pensare a te stessa, almeno a te stessa, l’unica cosa a cui pensi è un tizio che non ha nessuna intenzione di fargli da padre”.

“Questo non puoi dirlo.”

“Questo non vuoi sentirtelo dire.”

 

Il bambino la saluta avvolto nella nebbia. Non è un sogno. Il monitor rimanda una sagoma chiara su fondo di pece.

L’immagine è irreale, balla, si muove a scatti. Lei gli occhi li distoglie dopo poco, non vuole tenerli fissi lì.

Ho due cuori dentro, pensa, il mio e il suo. Il pensiero lo formula così. E non è una scoperta. Non è niente, sei tu.

Prima, nella sala d’attesa, ha guardato le altre. Non riusciva a concentrarsi sul romanzo che si è portata – un consiglio dell’Irlandese, Pao Pao. Sempre sulla stessa riga, come su un geroglifico. Andava avanti con sforzo, tornava indietro.

Allora ha alzato lo sguardo sulle altre: tutte così – l’aggettivo non lo trova. Diverse, e non fra loro, ma da lei. Serene? Difficile dirlo. E non vuol dire nemmeno rassegnate, ma di sicuro non in lotta.

Se fosse capace di attaccare discorso con una di loro – quella che sta una sedia oltre la sua e sfoglia una rivista, fermandosi su ogni pagina non più di due secondi, o quella bellissima, il viso lentigginoso, che si accarezza la pancia di continuo. Se fosse capace, chiederebbe solo questo: ma voi come vi sentite? Però sinceramente, seriamente. Non avete mai l’impressione che sia tutto finito? Che ogni cosa sia scritta, irreversibile, senza alternative?

Non si accorge che una ragazza senza pancia la guarda con invidia.

Nuda sul lettino, sente il medico che traffica fra le sue gambe divaricate, cerca di distrarsi girando il viso verso la finestra. Le tende impediscono di vedere fuori, ma sul davanzale incrocia il volto di una madonnina di gesso e non riesce a decifrarlo.

“E il papà che dice?” chiede il ginecologo.

Il papà sta in cielo. Vorrebbe rispondere come la madonnina di gesso. Vorrebbe sbrigarsela così, invece risponde: “È all’estero”, ed è una parte di verità.

“Be’, speriamo che rientri in tempo,” dice il ginecologo, con una voce piatta, mentre sposta la mano guantata dal ginocchio di lei all’altezza dell’inguine.

Luciana adesso ha gli occhi sulla pancia: non vede che quella, una parete di carne fra sé e il pube, la vita prima e la vita dopo, la sua fica laggiù – la pensa così – come una zona estranea, superflua.

“Siamo intorno al chilo e due,” aggiunge il dottore, lo dice come lo direbbe il commesso al banco di un alimentari.

“Ora lui ha gli occhi aperti. Vede, sente. Quando lei si massaggia la pancia, lui sente.”

Luciana non lo fa spesso. E detesta che lo facciano gli altri, il più delle volte nemmeno chiedono il permesso. Una mano sola forse vorrebbe, quella che non c’è. Chiude le palpebre quando sente i calci. Respira più profondo, come quando si piange.

Vuole chiarirsi, si sforza di non mentire a sé stessa. Fa con la sua vita una stupida operazione algebrica. Io più il bambino. Io più l’Irlandese più il bambino. Io meno Ettore. Io più il bambino meno l’Irlandese. Ma poi anche questo: Luciana meno Luciana-come-era. Dov’è la ragazza spiritata e ironica, capace di fare la misteriosa, di inventare parole sceme per far ridere gli amici? Non lo sa.

Ai primi movimenti che ha avvertito nella pancia, le è venuto da ridere. Sì, ridere. La risata bella di quando una cosa ti sorprende. Una magia, un gioco di prestigio, uno spettacolo del cielo, ma niente di tutto ciò era fuori, lei lo conteneva, era in lei. Se avesse avuto qualcuno da abbracciare, lì, su due piedi, l’avrebbe abbracciato. Gli avrebbe detto frasi un po’ sconnesse, tipo: pensa a quando rideremo insieme. Chi? Io, io e mio figlio. Poi ecco, il fatto è che la magia è come evaporata, lo spettacolo celeste sparito, l’Irlandese se n’è andato e si è portato via il firmamento come un telo per fare cinema.

Una volta, mentre camminava per strada, una bambina ha indicato la sua pancia e si è avvicinata: “Come si chiama?” ha chiesto. “Non lo so ancora,” ha risposto lei. E la bambina: “Se è un maschio, Arcobaleno”. E se è femmina? “Se è femmina, Arcobalena.” Ci ripensa come a un’epoca lontana, come a una felicità tramontata. Era un paio di mesi fa. E adesso non sa più cosa sperare, cosa volere.

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© Giangiacomo Feltrinelli Editore