Hernan Diaz, autore di Trust e Premio Pulitzer 2023, insieme alla sua traduttrice Ada Arduini rispondono alle domande dei lettori. L’incontro è avvenuto a Milano, nella sede della casa editrice Feltrinelli.

HERNAN DIAZ: Il titolo, Trust, è una parola che in inglese ha molti significati: a me interessava sia il significato economico, che indica una specie di monopolio, sia l’altro significato di trust, cioè fiducia.

Questo libro è una indagine sul capitale e sul denaro. Negli Stati Uniti il denaro ha una qualità, una forza, quasi mitica, ma in realtà ci sono pochissimi romanzi che parlano di questo tema: ci sono romanzi che parlano dei sintomi della ricchezza e dell’eccentricità delle persone molto, molto ricche, oppure della miseria nera delle persone molto povere, sono pochi invece quelli che esplorano il labirinto della ricchezza. Per me questo vuoto era molto interessante: quando ho incominciato a studiarlo mi ha interessato la narrativa che circonda questo vuoto e la maniera in cui la realtà diventa poi una merce, qualcosa da comperare.

L’assenza più clamorosa di questi romanzi è che mancavano le donne, i protagonisti di queste storie di ricchezza erano sempre uomini, le donne figuravano solo come mogli, segretarie o vittime.

Sapevo che volevo occuparmi di questo, scrivere di questo, però non sapevo come: avrei potuto prendere una sola direzione, perché il denaro consiste in una serie di mediazioni, quindi ho ideato struttura particolare.

Quando si apre il libro, la prima cosa che si incontra è un indice. E la prima cosa che si legge è un romanzo dentro al romanzo, che racconta di uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti e del suo rapporto con la moglie. Questo libro, che avrà un finale tragico, è un libro completo, a cui segue un memoir, e presto il lettore si renderà conto che il memoir ha dei paralleli con il primo romanzo e si accorgerà che il memoir racconta la realtà che il romanzo ha romanzato.

Questo memoir è un’opera incompleta ed è a sua volta seguito da un altro memoir, che chiarisce la relazione tra questi due libri. Il quarto e ultimo libro è un documento che viene ritrovato durante la scrittura dell’ultimo memoir e che dà una completezza a tutti questi elementi.

La domanda è: in quale contratto entriamo come lettori quando affrontiamo questo libro o in generale la lettura, quale fiducia dobbiamo nutrire verso il narratore e qual è la differenza tra realtà e finzione narrativa?

 

Domanda: Questa storia mi ha ricordato la storia di Anna Delvey [la truffatrice americana ispiratrice della serie tv Inventing Anna], una donna che voleva essere ricca. Esiste un parallelismo tra il tuo libro e la sua storia?

HD: Mi è capitato di incrociare questa storia e l’ho trovata affascinante. Ma si deve immaginare questa storia moltiplicata per parecchi miliardi. Però hai perfettamente ragione, perché si tratta di facciate, di interpretare dei ruoli. L’unica differenza è che lei è stata incriminata, ma c’entra molto. È tutto un grande furto, una grande rapina.

 

Domanda: Per scrivere le quattro parti in cui è diviso il romanzo, ovviamente ha dovuto calarsi in quattro personaggi diversi e quattro ruoli diversi. Com’è stato?

HD: Sono effettivamente quattro libri molto diversi: per il primo potremmo fare un parallelo con la narrativa di Henry James o di Edith Wharton, uno stile inizio secolo, un po’ decadente. Il secondo libro è scritto da un uomo molto importante e molto irritante, un po’ ispirata dagli anni della presidenza Trump. Per prepararmi a scrivere questa parte del romanzo ho letto un sacco di biografie di importanti capitalisti, come Henry Ford e molti altri. La terza parte mi è stata ispirata dal new journalism degli anni ’60 e ’80 e da autrici come Joan Didion o Lillian Ross, ne ho studiato lo stile e ho cercato di riprodurlo. Il quarto l’ho pensato come ad una wunderkammer modernista, tra Wittgenstein e Virginia Woolf. Ho scritto una specie di manulae di stile per ciascuna di queste quattro parti, che è stato di enorme aiuto per le traduzioni.

 

Domanda: Com’è stato il processo creativo, ha scritto il primo e poi di seguito un altro, oppure, siccome sono bene o male legati l’uno all’altro con un fine unico, sono stati portati avanti parallelamente, e soprattutto in quanto tempo?

HD: Ho lavorato libro per libro, perché è stato molto difficile calarsi ogni volta in ciascuna delle voci su cui ho lavorato. Il romanzo parla proprio di cosa significa avere una voce, quindi ho dovuto finire uno per passare al successivo. L’ordine è stato: primo, terzo, secondo e quarto. È stato divertente.

 

Domanda: In Italia non è che si parla molto del rapporto con il denaro, per esempio non è buona educazione dire quanto si guadagna. Mentre in America c’è più disinvoltura, dare un valore al denaro è già sul piatto.

HD: No, è una cosa che non si fa neppure in America, ma è interessante che qui si creda così. Se c’è una differenza, però, credo che derivi dalla cultura protestante e calvinista che negli Stati Uniti, c’è fin dai primi coloni, secondo la quale la fortuna materiale in questo mondo porta alla redenzione nell’aldilà. Allo stesso tempo, il denaro era una cosa che bisognava trattare con pudore, come se fosse un tabù, e le famiglie molto ricche era meglio che non lavorassero. Nei classici della letteratura americana che raccontano la ricchezza, Henry James, Edith Wharton, Scott Fitzgerald, non c’è il lavoro. Come se il denaro non fosse il capitale, ma una specie di tesoro, qualcosa che c’era già, non nato dal lavoro di qualcuno.

 

Domanda: Trovo il suo modo di scrivere metodico, quasi accademico. Quanto ha influito l’accademia nella sua scrittura?

HD: Molto, mi ha insegnato la pazienza di lavorare negli archivi. E lavorare con i testi teorici e filosofici mi ha insegnato a non avere paura della scrittura lenta, anche se è un tipo di ritmo che non è generalmente considerato cool. A me interessa, invece, indagarlo e approfondirlo. Tutto questo può sembrare molto metodico, ma in realtà è stato un casino.

Trust di Hernan Diaz

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Hernan Diaz

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