Mi sono chiesta, a volte, nel modo distratto che hanno le domande per noi cruciali, il perché della mia ossessione per Trieste. Perché il mio tornarci ogni volta che la vita, quella che si svolge sempre altrove, lo permetteva. Perché me ne andavo con una disperazione sproporzionata, dal momento che le mie partenze non sono mai state un addio, piuttosto parentesi di assenza, perlopiù di breve durata. Io che poi, per la città, non posso nemmeno vantare un diritto d’anagrafe, tanto meno di sangue. Solo un amore senza ragioni.
Non ho mai risposto sul serio a questa domanda, anche se presagivo in modo vago che avesse a che fare con la facile propensione, là in città, a immaginare un io possibile, un’autobiografia desiderata. Presagivo insomma che avesse a che fare con la scrittura.
Negli anni la mia ossessione per Trieste prendeva via via una forma più definita e al contempo sentimentale. Non erano più solo le strade dietro l’ippodromo dove camminavo nei pomeriggi di gennaio, nemmeno le targhe sui palazzi con i versi dei poeti che sapevo a memoria come tutti, e nemmeno quella curva che porta al castello di San Giusto e avevo percorso la mattina del mio primo arrivo, in una di quelle rare giornate in cui a Trieste piove a dirotto. Il mio rapporto con la città sfumava, diventava qualcosa di più difficile da raccontare: l’aura di una foto del secolo scorso che immortala la vita in uno dei caffè storici, trovata in una libreria antiquaria del Ghetto, oppure la vista dal belvedere sul Carso che si sporge verso est, o l’aria di confine che fischia sul prato di Campo Carri quando si esce dal sentiero a due passi dall’obelisco. Elementi incorporei e sfuggenti. Perché mi riguardavano? Perché, più pericolosamente, mi spingevano a scrivere?
Quella geografia che conoscevo così bene alimentava, nel ricordo, il mio attaccamento mentre vivevo lontana, struggendomi per la distanza. Diventava qualcosa di preciso e misterioso, che inseguivo come si fa con gli aquiloni strappati da una raffica, per acciuffarli ma anche per il gusto di inseguirli vanamente. Cosa significavano per me la città, il suo affaccio sul golfo e sul confine?
Così ho preso la mappa delle strade e l’ho seguita attraversando la storia grande che ha assediato Trieste, passandole sopra o al fianco nei cinquant’anni che vanno dagli ultimi tempi del governo di Tito fino alle guerre jugoslave, ai teneri anni più recenti. Cosa inseguivo? L’aria dell’est, un frammento d’Europa, un’inquietudine tutta balcanica o la nostalgia inconfessabile del bell’ordine austroungarico. Tutto questo mi verrebbe da dire, ma è solo un’idea astratta. Inseguivo qualcosa di più minuto e quotidiano. La libertà che si prova a tuffarsi dagli scogli di Barcola da bambini, la confusione delle lingue che promettono un mondo da scoprire, l’allegria nelle canzoni che si intonano in osmiza quando cala il sole sul mare e dicono di attraversamenti lungo il confine con la carne nascosta nel reggipetto, la malinconia dei bordelli sloveni e la jeansinara dove compri i vestiti a poco prezzo, che tanto non importa a nessuno.
Tutti questi sono frammenti che è facile trasfigurare in un mito, la città presta il fianco alla leggenda. Eppure io cercavo qualcosa di più incerto, l’apparizione di una donna o di un uomo, di un ragazzo o una ragazza, che suscitavano in me confusi sentimenti di attrazione e inquietudine. Destini, quello di Vili e di Alma e di suo padre (protagonisti del romanzo Alma, NdR), che ho rincorso nel loro crescere in città, ad di qua e al di là del confine, inseguendosi e mancandosi, desiderandosi e perdendosi, all’ombra della grande storia che ha determinato e travolto le loro vite. Camminando accanto a loro, forse non ho risposto alla domanda su questa mia ossessione per Trieste, su questo amore senza ragioni, ma ne ho seguito il richiamo.
Alma di Federica Manzon
Tre giorni dura il ritorno a Trieste di Alma, che dalla città è fuggita per rifarsi una vita lontano, e ora è tornata per raccogliere l’imprevista eredità di suo padre. Un uomo senza radici che odiava il culto del passato e i suoi lasciti, un padre pieno di fascino ma sfug…
Federica Manzon
Federica Manzon (Pordenone, 1981) ha pubblicato i romanzi Come si dice addio (2008) e Di fama e di sventura (premio Rapallo Carige 2011 e premio Selezione Campiello 2011). Nel 2015 …