Di sé stessa diceva di essere un’aliena. Scrisse di fantascienza, Br, nazisti, dimenticando sempre il suo io. La scrittrice era nata il 17 giugno 1925. Appassionata di fantascienza, era fuggita da Dachau. Nel 1945, in Germania, incontrò il suo destino: una bomba a scoppio ritardato la lasciò paralizzata alle gambe.

Si definiva un’aliena non perché si sentisse diversa ma perché l’alieno la interessava. «Sono convinta che non ci potrà essere pace in Terra finché l’altro sarà soltanto uno strumento d’affermazione, se non una tua pedina, un oggetto di derisione», 

Nel libro “Io sono un’aliena”, racconta la sua idea di mondo e la sua idea di scrittura, pubblicato la prima volta nel 1999, quando aveva 74 anni, e ripubblicato oggi da Feltrinelli con la cura del figlio Marco d'Eramo, in occasione dei cent’anni dalla nascita di questa scrittrice mai dimenticata ma spesso scolorita e ributtata indietro, come scrive Margaret Mazzantini nella prefazione.

EVENTO A MILANO

“Se nihil alieni a me alienum puto, gli extracomunitari che dormono in macchina, gli zingari nei loro camper, i barboni sull’asfalto, i bambini randagi nelle strade brasiliane, tutti i maltrattati della Terra sono i miei prossimi più cari Essi sono l’alieno che è tra noi. Ignorarli e respingerli è come alienare una parte di sé, è come amputarsi. Se Francesco d’Assisi fosse vivo oggi, assieme al Fratello Lupo, al Fratello Sole, alla Sorella Morte (che nell’inconscio nostro s’addice solo agli altri), avrebbe certamente incluso nel suo cantico il Fratello Alieno”. Luce D’Eramo

Un testo scritto dal figlio Marco D'Eramo il giorno della morte di Luce

Deviazioni del destino - di Marco d’Eramo

La sua vita è stata scabra, drammatica, appassionante come il secolo che ha attraversato, il Novecento. Nata nel 1925 a Reims (Francia), ha vissuto letteralmente sulla sua pelle il fascismo, la Seconda guerra mondiale, il comunismo, l’era spaziale, il rimpicciolirsi del mondo. Sua madre: una signora bella, aguzza, avara, di cui conservo una Grammatica e sintassi della lingua francese. Suo padre – famiglia di musicisti – era un insolito imprenditore edile emigrato in Francia, uno dei primi piloti d’aviazione della Grande guerra (1914-1918), pittore che frequentava Modigliani e i postimpressionisti nella Parigi della Belle Époque, e che nel ’44 sarebbe stato sottosegretario all’Aviazione nella Repubblica di Salò. E proprio in quell’anno Lucetta (così la chiamavano tutti i suoi amici perché il suo nome di battesimo francese era Lucette) scappò dal castello di Bassano in cui vivevano per funzione i genitori e andò a lavorare nei campi di concentramento tedeschi prima come ingenua volontaria fascista partecipante ai Littoriali, poi come deportata comunista. Fuggì da Dachau, lavorò come sguattera e contadina nella campagna di una Germania già sconvolta dalla sconfitta imminente. Cameriera in un albergo di Magonza, faceva parte delle squadre di volontari che scavavano le macerie dopo i bombardamenti, e lì, il 27 febbraio 1945 (una data che abbiamo festeggiato con brindisi per tutta la sua vita), incontrò il suo destino nelle sembianze di una bomba al fosforo a scoppio ritardato che la lasciò paralizzata alle gambe. Il giorno dopo gli americani entrarono a Magonza.

Tornata sconfitta dalla guerra incontrò al Rizzoli di Bologna un ferito, un bersagliere, milite della decima Mas, futuro professore di filosofia gentiliano, mio padre: si sposò e mi concepì. Tutte queste vicende sono raccontate nel romanzo che l’ha resa famosa, Deviazione (1979), di cui guardo ora con ripetuto stupore la copertina giapponese che riporta la sua fototessera da deportata.

Dopo la guerra, sposata, madre, invalida, studiò, si laureò prima in Lettere, con una tesi su Leopardi, e poi in Filosofia, con una tesi sulla Critica del giudizio di Kant. Fu però la paralisi l’esperienza decisiva, quella che le capovolse l’esistenza, da ragazza piacente a oggetto di compassionevoli “poverina”, e che perciò la costrinse a dover vivere seducendo il mondo, perché dimenticasse che era in carrozzina. Tutto ciò che ad altri è dovuto o sembra naturale, lei dovette conquistarselo ogni minuto.

Ricordo perciò il suo animo festaiolo di quegli anni: organizzava feste in continuazione, con giochi e animazioni, dopo le veglie di accanita lettura e scrittura. Viaggiava, gite, picnic. Alterni sprazzi di povertà, vera indigenza, con fasti d’incurante scialo. Dopo che si separò da mio padre – quando l’incompatibilità politica era diventata impossibilità esistenziale passammo un anno in un ospizio per invalidi: persone allo stadio terminale di mali incurabili che però giocavano a ping-pong e trincavano. In quel periodo non riuscivamo ad arrivare alla fine del mese: alle volte ci mandava soldi Camilla Cederna.

Nello stesso tempo però Lucetta riceveva tutte le settimane Alberto Moravia ed Elsa Morante e discuteva con Alfonso Gatto, e rivedo la casa di Paolo Milano. Poi le assidue frequentazioni con Cesare Zavattini e Ignazio Silone. L’apertura mentale con cui visse il ’68 del figlio e dei suoi coetanei. Una curiosità vorace, inesausta. La passione per le galassie lontane. L’umiliazione dell’editore che accettava i suoi romanzi e poi li rifiutava quando la vedeva in carrozzina. O che non digeriva il suo sguardo sul nazifascismo, mai conforme al conformismo. E poi, quando il successo le dette un minimo di precaria agiatezza, la capacità di circondarsi di amici che l’accompagnavano nei viaggi più spericolati, da Tokyo a Leningrado a New York. E una tenace volontà di autonomia fisica, fare tutto da sola, persino vivere da sola in un appartamento straniero, come fece un anno con una borsa di studio a Berlino. Il tutto intramezzato da soggiorni nei sanatori, come quello di Pietra Ligure con i suoi amici chirurghi Antonio Negri, Giorgio Salina, suor Lina: l’affascinava la pretesa di alcuni umani di rappresentare la divinità in Terra e così sono sempre stati intrigati, fittissimi i suoi rapporti con gesuiti come padre Grasso e padre Vanzan, domenicani come Pio van Diemen, teologi come Gianfranco Ravasi. Tre giorni fa, quando ormai la parola le tornava solo a sprazzi, mi ha chiesto: “Come faccio a sapere che muoio?”. “Non sapremo mai se puoi saperlo,” le ho risposto. “Ecco perché la teologia è così interessante,” mi ha ribattuto, prima che il rantolo riprendesse il sopravvento.

Nel 1988, di ritorno dal Salone del libro di Francoforte, un passante le rovesciò la carrozzina all’aeroporto: fratture, inizio del declino fisico, nuove operazioni, dolori sempre più bestiali, la voglia di morire, la volontà di vivere appesa alla sola possibilità di scrivere, lavorare, immaginare nuove storie. L’unica serenità nella lettura, sempre più difficile: ancora Dostoevskij, tanta fantascienza, sempre più Montaigne oltre che Nietzsche, il Marx dei Grundrisse. I rapporti conflittuali ma affascinati con il computer, una strana bestia per chi ha cominciato a scrivere con il calamaio.

La sua passione politica non era sofisticata, nessuna scuola quadri come retroterra, ma veniva da una capacità d’immedesimazione, da quello che Kant chiama la facoltà dell’immaginazione: il vedersi al posto dell’altro. Ecco perché con la sua amica e infermiera Katarzyna alla fine parlava polacco lasciando di stucco il chirurgo del Policlinico che l’ha seguita nei suoi ultimi giorni. Prima del suo improvviso peggioramento, aveva firmato un contratto per scrivere la vita di Etty Hillesum, un’ebrea olandese morta ad Auschwitz: “Etty mi ha ridato un po’ di voglia di vivere. È la sola che abbia scritto dei campi durante e non dopo,” mi ha detto tra un’allucinazione e l’altra del delirio post-operatorio. E poi: “Ho fatto bene a fare un po’ di stravizi, ho bevuto buoni vini, mangiato manicaretti”.

Una capacità incredibile di assaporare la vita. Una curiosità infinita ma quieta.

7 marzo 2001 - “il manifesto”

Io sono un'aliena di Luce d’Eramo

Uscito nel 1999, Io sono un’aliena è una lunga riflessione, in parte nata da un colloquio con Paola Gaglianone, in cui Luce d’Eramo rievoca le tappe del suo insolito, scomodo percorso esistenziale e intellettuale. Il filo dei pensieri s’intreccia con le esperie…

Luce d’Eramo

Luce d’Eramo nasce nel 1925 a Reims da genitori italiani e si spegne a Roma il 6 marzo 2001. Fra le sue opere, Nucleo zero (1981), Partiranno (1986), Ultima luna …