Amartya Sen: Le radici della democrazia

12 Dicembre 2003
Aumenta lo scetticismo sulle prospettive immediate della democrazia in Iraq, che dovrebbe essere introdotta dall’alleanza guidata dagli Stati Uniti. Non è strano. Le ambiguità negli obiettivi dell’occupazione e la mancanza di chiarezza sul processo di democratizzazione rendono i dubbi inevitabili. Ma sarebbe sbagliato tradurre queste incertezze in una diffidenza più generale sulla possibilità – e di fatto la necessità – di raggiungere la democrazia, in Iraq o in qualunque altro paese che non ce l’abbia. E non ci sono neppure ragioni fondate per sentirsi a disagio nell’appoggiare la lotta per la democrazia in tutto il mondo, la sfida più impegnativa del nostro tempo.
I movimenti democratici di tutto il pianeta (prima in Sudafrica, in Argentina e in Indonesia, oggi in Birmania, in Zimbabwe e altrove) riflettono la volontà della popolazione di lottare per partecipare alla vita politica e avere realmente una voce. I timori sollevati da quel che succede in Iraq devono essere inseriti nel loro contesto specifico. Bisogna considerare che esiste un intero mondo oltre all’Iraq.
In un’ottica più larga è importante considerare due obiezioni generali alla difesa della democrazia che negli ultimi tempi hanno guadagnato molto terreno nei dibattiti internazionali e che tendono a influenzare le discussioni di politica estera, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa. Come prima cosa vengono sollevati dei dubbi su ciò che si può realmente ottenere con la democrazia nei paesi più poveri. La democrazia, si dice, ostacola il processo di sviluppo e distoglie l’attenzione dalle priorità del cambiamento economico e sociale, come fornire cibo adeguato, aumentare il reddito pro capite e realizzare riforme istituzionali. Alcuni sostengono anche che il regime democratico può essere profondamente illiberale e può causare sofferenza a chi non appartiene alla maggioranza al potere. Per i gruppi più vulnerabili non è forse preferibile la protezione che può offrire un governo autoritario?
La seconda linea d’attacco mette in dubbio l’opportunità storica e culturale di promuovere la democrazia in paesi che probabilmente non la "conoscono". L’appoggio alla democrazia come regola generale per tutti, che arrivi da organismi nazionali e internazionali o da attivisti dei diritti umani, viene spesso criticato perché implicherebbe il tentativo di imporre valori occidentali a società non occidentali.
Questa tesi va molto al di là del riconoscimento che nel mondo contemporaneo la democrazia sia una pratica prevalentemente occidentale. Arriva a presumere che la democrazia sia un’idea le cui radici si possono ricercare solo ed esclusivamente in un tipo di pensiero occidentale, fiorito unicamente in Europa – e in nessun altro luogo – per lunghissimo tempo.

La ragione pubblica
Sono questioni legittime ed estremamente importanti che vengono sollevate con una certa insistenza. Ma questi timori sono fondati? Per sostenere il contrario è importante osservare che queste due linee di attacco non sono totalmente scollegate. Il loro difetto principale sta nel considerare la democrazia in modo troppo limitato e ristretto, quasi solo in termini di sfida elettorale. Mentre tralasciano quello che John Rawls chiamava "l’esercizio della ragione pubblica". Questo concetto più ampio prevede la possibilità che i cittadini partecipino alle discussioni politiche e siano in grado di influenzare le scelte pubbliche.
Per capire qual è l’errore di ciascuna delle due linee di attacco alla democratizzazione di una società è fondamentale rendersi conto che le esigenze della democrazia vanno oltre l’urna elettorale.
Di fatto il voto è solo un modo – anche se importantissimo – di rendere efficaci le discussioni pubbliche, quando la possibilità di votare si unisce a quella di parlare e ascoltare senza timori. La forza e la portata delle elezioni dipendono in misura cruciale dall’opportunità di una discussione aperta. Le sole elezioni possono essere dolorosamente inadeguate, come hanno più volte dimostrato le stupefacenti vittorie elettorali delle tirannie al potere nei regimi autoritari, dall’Unione Sovietica di Stalin all’Iraq di Saddam Hussein. Il problema in questi casi non è solo la pressione esercitata sugli elettori al momento del voto. Ma riguarda la censura di qualsiasi discussione pubblica e aperta su fallimenti e promesse non mantenute, la soppressione dell’opposizione e la violazione dei diritti civili e delle libertà politiche fondamentali.

Un posto centrale
La necessità di avere una visione più ampia della democrazia è stata molto discussa non solo nella filosofia politica contemporanea, ma anche in due nuove discipline come la teoria della scelta sociale e la teoria della scelta pubblica. Un processo decisionale sviluppato attraverso la discussione può aumentare le informazioni su una società e sulle priorità individuali, e queste priorità possono essere influenzate dal dibattito pubblico. Come sostiene James Buchanan, il maggiore teorico della scelta pubblica, "la definizione di democrazia come ‘governo attraverso la discussione’ implica che nel corso del processo decisionale i valori individuali possono cambiare".
Tutto questo solleva delle perplessità sull’attenzione quasi assoluta riservata al voto e alle elezioni nei saggi di politica internazionale, come The third wave di Samuel Huntington, secondo cui "elezioni aperte, libere ed eque sono l’essenza della democrazia, l’ineludibile sine qua non". Nella prospettiva più ampia dell’esercizio della ragione pubblica, la democrazia deve riconoscere alla libera discussione pubblica e alle interazioni proprie di ogni dibattito un posto centrale nel pensiero e nella pratica politica – non solo attraverso le elezioni, e non solo per le elezioni. Ciò che occorre, come ha osservato Rawls, è salvaguardare la "diversità delle dottrine – la realtà del pluralismo", che è centrale nella "cultura pubblica delle democrazie moderne" e che in una democrazia deve essere assicurata da "diritti e libertà fondamentali".
Questa visione più ampia della democrazia come esercizio della ragione pubblica ci permette anche di capire che le sue radici vanno molto al di là degli stretti confini di alcune pratiche definite e ormai considerate come specifiche "istituzioni democratiche". Questo fondamentale riconoscimento era già chiaro a Tocqueville. Nel 1835, in Democrazia in America, l’autore osservava che la "grande rivoluzione democratica" di quegli anni poteva essere vista come una "cosa nuova". Ma in una prospettiva più ampia poteva essere considerata anche un aspetto della "tendenza più continua, antica e permanente della storia". Pur limitando i suoi esempi storici al passato dell’Europa (e sottolineando l’immenso contributo dato alla democrazia dall’ammissione delle persone comuni nei ranghi del clero nello "stato francese di settecento anni fa"), la tesi generale di Tocqueville ha un rilievo molto più ampio.
La difesa del pluralismo, della diversità e delle libertà fondamentali è presente nella storia di molte società. Le antiche tradizioni che incoraggiavano e tutelavano i dibattiti pubblici su problemi politici, sociali e culturali in India, oppure in Cina, Giappone, Corea, Iran, Turchia, nel mondo arabo e in molte zone dell’Africa, devono ricevere un più pieno riconoscimento nella storia delle idee democratiche. Questo patrimonio globale è un motivo sufficiente per contestare l’opinione secondo cui la democrazia è solo un’idea occidentale e di conseguenza solo una forma di occidentalizzazione.
Il riconoscimento della storia di queste società ha un significato immediato per la politica contemporanea, perché rimanda a un retaggio globale attento a tutelare e a promuovere il dibattito sociale e le interazioni pluralistiche, che oggi non possono essere meno importanti di quanto lo fossero in passato, quando venivano difese.
Nella sua autobiografia Lungo cammino verso la libertà, Nelson Mandela racconta come da ragazzo restò colpito dalla democraticità delle riunioni locali che si svolgevano nella casa del reggente di Mqhekezweni: "Prendeva la parola chiunque lo volesse. Era la democrazia nella sua forma più pura. Poteva esserci una scala gerarchica tra gli oratori, ma venivano ascoltati tutti – capo e suddito, guerriero e uomo di medicina, negoziante e agricoltore, proprietario terriero e bracciante. L’autogoverno si fondava sulla libertà di ognuno di esprimere le proprie opinioni e sull’uguaglianza del loro valore come cittadini".

L’esempio africano
Meyer Fortes ed Edward E. Evans-Pritchard, i grandi antropologi dell’Africa, nel loro libro African political systems pubblicato nel 1940 e diventato un classico hanno sostenuto che "la struttura di uno stato africano implica che re e capi governano per consenso". Potrebbe essere un’affermazione troppo generica, come hanno sostenuto in seguito i loro critici. Tuttavia non possono esserci molti dubbi sul ruolo tradizionale e sull’importanza sempre avuta dalla responsabilità personale e dalla partecipazione nella cultura politica africana. Sarebbe un grave errore trascurare tutto questo e ridurre la lotta per la democrazia in Africa a un tentativo di importare dall’esterno "l’idea occidentale" della democrazia.
In nessun altro luogo del mondo contemporaneo è forte come in Africa la necessità di un impegno democratico. Alla fine del ventesimo secolo il continente ha profondamente sofferto per i regimi militari e autoritari arrivati al potere dopo lo sgretolamento degli imperi britannico, francese, portoghese e belga. L’Africa ha anche avuto la sfortuna di trovarsi impigliata nelle logiche della guerra fredda, quando ciascuna delle due superpotenze sosteneva regimi militari amici e ostili alla controparte.
Nessun usurpatore dell’autorità civile è mai rimasto senza l’amicizia di una superpotenza a cui era legato da un’alleanza militare. Un continente, che negli anni cinquanta sembrava pronto a sviluppare la politica democratica nei paesi neoindipendenti, si è ritrovato ben presto alla mercé di una serie di uomini forti legati all’uno o all’altro campo nella militanza della guerra fredda. Il loro dispotismo faceva concorrenza a quello del Sudafrica dell’apartheid.
Questo quadro oggi sta lentamente cambiando, e il Sudafrica del dopo apartheid svolge un ruolo di primo piano. Ma come ha sostenuto Anthony Appiah, "la decolonizzazione solo ed esclusivamente ideologica è destinata a fallire se trascura la ‘tradizione’ endogena o le idee ‘occidentali’ esogene". Anche se le istituzioni democratiche sviluppate in occidente vengono accolte e messe in pratica, il compito richiede un’adeguata comprensione delle profonde radici del pensiero democratico nello stesso continente africano. Con un diverso grado di intensità questioni analoghe sorgono anche in altre parti del mondo non occidentale che lottano per introdurre o consolidare la democrazia.

L’origine di una parola
L’idea che la democrazia sia un concetto essenzialmente occidentale a volte viene legata alla pratica del voto e delle elezioni nell’antica Grecia, e in particolare ad Atene, a partire dal quinto secolo avanti Cristo. Nell’evoluzione delle idee e delle pratiche democratiche va sicuramente sottolineato il ruolo fondamentale svolto dalla democrazia diretta ateniese sin dall’iniziativa pionieristica di Clistene a favore del voto pubblico, nel 506 avanti Cristo. La parola democrazia deriva dai termini greci demos (popolo) e kratia (autorità).
Anche se ad Atene molte persone – in particolare le donne e gli schiavi – non erano cittadini e non avevano diritto di voto, la straordinaria importanza della tradizione ateniese della condivisione dell’autorità politica merita indubbiamente un riconoscimento.
Ma in che misura tutto questo fa della democrazia un concetto sostanzialmente occidentale? È un’opinione che si scontra con due grosse difficoltà. La prima riguarda l’importanza dell’esercizio della ragione pubblica, che ci porta oltre l’angusta prospettiva del voto. La seconda riguarda la divisione del mondo in civiltà diverse geograficamente collegate, secondo cui l’antica Grecia sarebbe parte integrante di una riconoscibile tradizione "occidentale".
Vista la diversa storia delle differenti parti d’Europa, non è solo un’operazione discutibile, ma nella totale riduzione della tradizione occidentale all’antichità greca è anche evidente un implicito elemento di razzismo. In questa prospettiva sarebbe piuttosto facile considerare per esempio i discendenti di goti e visigoti, o di altri europei, come gli eredi della tradizione greca ("Sono tutti europei"). Però si è molto restii a prendere atto dei legami intellettuali dei greci con gli antichi egizi, iraniani e indiani, sebbene gli stessi greci – come documentano i resoconti dell’epoca – fossero molto più interessati a conversare con loro che a chiacchierare con gli antichi goti.
Queste discussioni spesso riguardavano temi direttamente o indirettamente legati alle idee democratiche. Quando Alessandro chiese a un gruppo di filosofi giainisti dell’India perché prestavano così poca attenzione al grande conquistatore, ottenne una risposta che metteva esplicitamente in discussione la legittimità dell’ineguaglianza: "Re Alessandro, ogni uomo può possedere solo il pezzo di superficie terrestre su cui sta in piedi. E tu sei umano come tutti noi, a parte il fatto che sei sempre indaffarato e che non combini niente di buono allontanandoti così tanto da casa tua – una seccatura per te stesso e per gli altri. Presto sarai morto, e allora possiederai appena quel tanto di terra che basterà a seppellirti". Arriano riferisce che Alessandro rispose a questo rimprovero egualitario con la stessa ammirazione che aveva dimostrato durante l’incontro con Diogene, anche se la sua condotta rimase immutata ("L’esatto opposto di ciò che allora dichiarava di ammirare").
Classificare il mondo delle idee in base alle comuni caratteristiche razziali di popolazioni vicine non sembra un ottimo punto di partenza per categorizzare la storia del pensiero.
Bisogna osservare, naturalmente, che tali iniziative erano limitate quasi solo ai governi locali. Tuttavia sarebbe un errore liquidare le prime esperienze di governo partecipativo definendole irrilevanti per la storia globale della democrazia, soprattutto alla luce dell’importanza della politica locale nella storia della democrazia. Basti pensare ai comuni che sarebbero emersi in Italia mille anni più tardi, dall’undicesimo secolo in poi. Come ha osservato Benjamin I. Schwartz nel suo grande libro The world of thought in ancient China, "persino nella storia dell’occidente, con i suoi ricordi della ‘democrazia’ ateniese, l’idea che la democrazia non possa essere realizzata negli stati con un territorio molto ampio perché hanno bisogno di un potere centralizzato è rimasta senso comune fino a Montesquieu e Rousseau".

Repubbliche di villaggio
In realtà la storia di paesi tanto grandi spesso offre incoraggiamento e ispirazione e aiuta a non ritenerli lontani dalle idee democratiche. Nel 1947, quando l’India diventò indipendente, le discussioni politiche che condussero a una costituzione pienamente democratica, facendo dell’India la più grande democrazia del ventesimo secolo, contenevano riferimenti sia alle esperienze democratiche occidentali sia alle tradizioni indiane. Jawaharlal Nehru pose in particolare l’accento sulla tolleranza dell’eterodossia e del pluralismo nei regimi politici di imperatori indiani come Ashoka e Akbar. Si ricordò che quei regimi politici avevano incoraggiato e tollerato la discussione pubblica. E la moderna costituzione multipartitica indiana è stata collegata idealmente a quelle epoche.
Nei primi anni dell’indipendenza indiana si discusse molto, come succede spesso, se le organizzazioni della "antica entità dell’India" potessero essere un modello per la costituzione indiana del ventesimo secolo. Un’idea ancora meno plausibile di quanto lo sarebbe stato qualsiasi tentativo di impostare la costituzione degli Stati Uniti del 1776 secondo le pratiche ateniesi del quinto secolo avanti Cristo. Il presidente del comitato che scrisse la costituzione indiana, B.R. Ambedkar, studiò piuttosto attentamente la storia delle forme locali di governo democratico in India per valutare se potevano diventare un valido modello per la nascente democrazia. La conclusione di Ambedkar fu che non bisognava assolutamente attribuirgli quel ruolo, soprattutto perché il localismo aveva generato "meschinità e campanilismo" (parlando a titolo personale, Ambedkar si spinse ad affermare che "quelle repubbliche di villaggio sono state la rovina dell’India"). Ma pur rifiutando la possibilità che le istituzioni democratiche del passato indiano potessero offrire un modello adeguato per il presente, Ambedkar non mancò di rilevare l’importanza generale dell’esercizio della ragione pubblica nella storia dell’India.
In particolare esaltò l’espressione di opinioni eterodosse e la critica storica al prevalere delle ineguaglianze nel paese. È evidente il parallelo con il possente richiamo di Mandela al patrimonio africano della ragione pubblica nella lotta per conquistare democrazie pluraliste nell’Africa contemporanea.
La letteratura ufficiale sulla storia della democrazia è piena di celebri contrasti tra Platone e Aristotele, Marsilio da Padova e Machiavelli, Hobbes e Locke. È giusto che sia così, ma i grandi patrimoni intellettuali di Cina, Giappone, Asia orientale e sudorientale, subcontinente indiano, Iran, Medio Oriente e Africa sono stati quasi completamente trascurati nell’analizzare la portata dell’ideale della ragione pubblica. Ciò non ha favorito una comprensione sufficientemente ampia della natura e del potere delle idee democratiche legate a un costruttivo dibattito pubblico.
L’ideale dell’esercizio della ragione pubblica è strettamente associato a due specifiche pratiche sociali che meritano particolare attenzione: la tolleranza dei diversi punti di vista (e l’essere d’accordo sulla necessità del disaccordo) e l’incoraggiamento della discussione pubblica (sottolineando l’importanza di imparare dagli altri). La tolleranza e l’apertura della discussione pubblica sono spesso considerati elementi specifici – e forse esclusivi – della tradizione occidentale. Quanto è corretta questa idea? Sicuramente la tolleranza è stata un elemento significativo della politica occidentale moderna (lasciando fuori le aberrazioni estreme come la Germania nazista o l’amministrazione intollerante degli imperi britannico, francese o portoghese in Asia e in Africa). Eppure, qui non c’è una grande spaccatura storica che possa separare nettamente la tolleranza occidentale dal dispotismo non occidentale. Nel dodicesimo secolo, per esempio, il filosofo ebreo Maimonide fu costretto a emigrare da un’Europa intollerante e trovò rifugio nel mondo arabo, dove ricevette una posizione onorevole e influente alla corte dell’imperatore Saladino al Cairo – lo stesso Saladino che combatté duramente per l’islam nelle crociate.
Nell’India degli anni novanta del sedicesimo secolo, quando il grande imperatore moghul Akbar – con la sua fede nel pluralismo e nel ruolo costruttivo della discussione pubblica – parlava della necessità della tolleranza e si dava da fare per promuovere un dialogo tra popoli di credo diverso (fra cui indù, musulmani, cristiani, parsi, giainisti, ebrei e persino atei), in Europa imperversava ancora l’inquisizione. Giordano Bruno fu messo al rogo per eresia a Campo de’ Fiori, a Roma, nel 1600, proprio mentre Akbar parlava di tolleranza ad Agra.
Tuttavia non bisogna generalizzare e sostenere che le società non occidentali fossero più tolleranti di quelle occidentali. Esistevano grandi esempi di tolleranza e di intolleranza da entrambe le parti di questa spaccatura teoricamente profonda del mondo. Quella che deve essere corretta è l’affermazione non sufficientemente studiata e approfondita di una specificità occidentale in fatto di tolleranza. Ma non bisogna sostituirla con una generalizzazione altrettanto arbitraria di segno opposto.
In realtà ovunque, in luoghi e tempi diversi, si possono trovare molte manifestazioni di un fermo impegno in favore della comunicazione pubblica e della ragione associativa. Per citare un altro caso, di particolare importanza per la scienza e la cultura, il grande successo della civiltà araba nel millennio seguito alla nascita dell’islam offre un importante esempio di creatività locale unita all’apertura a influenze intellettuali esterne, spesso provenienti da persone con fedi religiose e da sistemi politici molto diversi. I classici greci e, in un ambito più specialistico, anche i matematici indiani, ebbero una profonda influenza sul pensiero arabo.

Democrazia e carestie
Sebbene tali scambi non facessero riferimento a nessun sistema formale di governo democratico, l’eccellenza dei risultati ottenuti – la grande fioritura della filosofia, della letteratura, della matematica e della scienza araba – è un tributo alla creatività indigena e all’esaltazione dell’aperto esercizio della ragione pubblica, che influenza il sapere e la tecnologia oltre alla politica.
L’idea alla base di questa apertura fu efficacemente sintetizzata all’inizio del settimo secolo da Imam Ali bin abi Taleb, il quale affermò che "nessuna ricchezza può giovarti più del pensiero" e che "nessun isolamento può essere più desolato della presunzione". Queste e altre affermazioni dello stesso tenore sono citate, per il loro significato nel mondo contemporaneo, dall’eccellente Rapporto 2002 sullo sviluppo umano degli arabi pubblicato dalle Nazioni Unite. La tesi dell’eccezionalità europea, viceversa, invita gli arabi, come il resto del mondo non occidentale, a dimenticare il proprio patrimonio di ragione pubblica.
Ignorare la centralità della ragione pubblica nell’idea di democrazia non solo distorce e diminuisce la storia delle idee democratiche, ma distoglie anche l’attenzione dai processi di interazione che determinano il funzionamento di una democrazia e il suo successo. Trascurando le radici globali della ragione pubblica, il che è di per sé una grave perdita, si impedisce un’adeguata comprensione del posto e del ruolo della democrazia nel mondo contemporaneo. Malgrado l’ampliamento del diritto di voto e l’introduzione di elezioni eque, è essenziale un dibattito libero e senza censure perché la gente possa stabilire ciò che deve pretendere, criticare e votare.
Si consideri l’affermazione molto discussa secondo cui le carestie non si verificano nelle democrazie ma solo nelle colonie imperiali (come succedeva nell’India britannica), nelle dittature militari (come in Etiopia, Sudan o Somalia negli ultimi decenni) o negli stati monopartitici (come in Unione Sovietica negli anni trenta, in Cina dal 1958 al 1961, in Cambogia negli anni settanta o nella Corea del Nord nel recente passato).
Per un governo è difficile resistere alle critiche dell’opinione pubblica nel caso di una carestia. Non solo per il timore di perdere le elezioni, ma anche per le possibili conseguenze che può avere lo scontento dell’opinione pubblica quando i giornali e gli altri media sono indipendenti e liberi da ogni censura e i partiti di opposizione possono incalzare quelli al potere. La percentuale di persone colpite dalla carestia è sempre piuttosto limitata (difficilmente supera il 10 per cento della popolazione totale), perciò diventa un incubo politico per il governo solo quando si promuove la solidarietà dell’opinione pubblica attraverso la libera circolazione dell’informazione e una franca discussione pubblica.
Anche se fino alla sua indipendenza, nel 1947, l’India aveva vissuto una serie di carestie – l’ultima, in Bengala nel 1943, uccise tra i due e i tre milioni di persone – simili catastrofi si sono interrotte bruscamente con l’introduzione di una democrazia multipartitica. La Cina, al contrario, ha conosciuto la più grande carestia ricordata dalla storia fra il 1958 e il 1961, quando secondo alcuni calcoli morirono tra i 23 e i 30 milioni di persone, dopo il totale fallimento della collettivizzazione nel cosiddetto "grande balzo".
Eppure una democrazia funzionante, che riesce a prevenire quasi senza sforzo grandi disastri come le carestie, spesso ha molto meno successo quando si tratta di denunciare politicamente la vergogna della denutrizione costante, ma non estrema, e della cattiva assistenza sanitaria. L’India non ha avuto difficoltà a evitare le carestie con interventi tempestivi. Ma è stato molto più difficile generare un adeguato interesse pubblico su problemi meno pressanti e drammatici, come la strisciante presenza di una fame endemica ma non estrema in tutto il paese e il basso livello dell’assistenza sanitaria di base.

Passi indietro
Il complesso ruolo della ragione pubblica e del suo esercizio si può osservare anche mettendo a confronto i risultati ottenuti negli ultimi decenni dalla Cina e dall’India nel campo della sanità e della speranza di vita. Si dà il caso che si tratti di un argomento che ha interessato i commentatori pubblici indiani e cinesi per millenni. Mentre Faxian (Fa-Hien), un viaggiatore cinese del quinto secolo che visse in India per dieci anni, scrisse con ammirazione e abbondanza di dettagli sulle disposizioni per l’assistenza sanitaria pubblica a Pataliputra, un viaggiatore che arrivò in India nel settimo secolo, Yi Jing (I-Ching), sostenne con animo più competitivo che "per gli atti terapeutici dell’agopuntura e della cauterizzazione e per la capacità di sentire il polso, la Cina non è mai stata sorpassata [dall’India]; il farmaco per prolungare la vita si trova solo in Cina". In India si discuteva molto delle pratiche cinesi quando i due paesi erano uniti dal buddismo.
A metà del ventesimo secolo, la Cina e l’India avevano la stessa speranza di vita, intorno ai 45 anni. Ma la Cina postrivoluzionaria, con il suo impegno per migliorare l’assistenza sanitaria e l’istruzione (un impegno che veniva dall’epoca della lotta rivoluzionaria) dedicò al drastico miglioramento del servizio sanitario un livello di attenzione che la più moderata amministrazione indiana non poteva assolutamente uguagliare. Nel 1979, quando introdusse le riforme economiche, la Cina aveva una speranza di vita intorno ai 67 anni contro i 54 scarsi di quella indiana. Eppure, anche se le radicali riforme economiche introdotte in Cina nel 1979 dettero il via a un periodo di straordinaria crescita economica, il governo rallentò il suo impegno per la sanità e in particolare sostituì l’assistenza sanitaria garantita e gratuita con assicurazioni private e autonome (tranne quando è fornita dal datore di lavoro, il che succede solo in pochi casi).
Questo passo indietro nella copertura dell’assistenza sanitaria non ha provocato grandi reazioni nell’opinione pubblica (a differenza di quello che sarebbe successo in una democrazia multipartitica), anche se quasi sicuramente ha influito sulla durata media della vita cinese. In India, al contrario, l’insoddisfacente assistenza sanitaria è stata denunciata e condannata sempre più spesso dall’opinione pubblica, che ha imposto alcuni cambiamenti positivi nei servizi forniti.
Il ruolo informativo della democrazia, che funziona soprattutto attraverso la libera discussione pubblica, può avere un’importanza centrale. La limitazione di questa funzione fondamentale è balzata in primo piano in occasione della recente epidemia di Sars. Anche se i primi casi erano stati registrati in Cina nel novembre 2002 e avevano provocato numerose vittime, le informazioni su questa nuova malattia mortale sono state tenute segrete fino all’aprile scorso.
La notizia è stata resa pubblica solo quando questa malattia ha cominciato a diffondersi a Hong Kong e a Pechino, ma a quella data non era più possibile isolarla e debellarla a livello locale. La mancanza di un’aperta discussione pubblica ha avuto evidentemente un ruolo cruciale nella diffusione dell’epidemia, ma la questione generale ha una rilevanza molto più ampia.

Appropriazione indebita
Il valore della ragione pubblica si applica anche alle discussioni sulla democrazia. È un bene che le pratiche democratiche siano state esaminate nella saggistica sulla politica internazionale, perché ci sono carenze evidenti nel comportamento di molti paesi che hanno tutte le istituzioni di una normale democrazia. Non solo la discussione pubblica di queste carenze è un mezzo efficace per cercare delle soluzioni, ma è proprio in questo modo che la democrazia come esercizio della ragione pubblica deve funzionare. In questo senso i difetti della democrazia esigono maggiore, e non minore, democrazia. L’alternativa – cercare di curare i difetti della pratica democratica con l’autoritarismo e la soppressione della ragione pubblica – aumenta la vulnerabilità di un paese di fronte a disastri periodici (comprese in molti casi le carestie).
E la mancanza di un controllo collettivo e pubblico favorisce la scomparsa di conquiste acquisite in precedenza, come sembra essere successo, in qualche misura, nel caso del servizio sanitario cinese. Persino nei regimi autoritari che si comportano meglio, come Singapore o la Corea del Sud predemocratica, si registrano una vera e propria perdita di libertà politica e restrizioni dei diritti civili. Per di più non esiste nessuna garanzia che la soppressione della democrazia possa rendere l’India, per esempio, più simile a Singapore che al Sudan o all’Afghanistan, o più simile alla Corea del Sud che a quella del Nord.
Considerare la democrazia come esercizio della ragione pubblica, come "governo attraverso la discussione", ci aiuta anche a individuare le profonde radici storiche delle idee democratiche di tutto il mondo. L’apparente modestia occidentale, che assume l’aspetto di un’umile riluttanza a promuovere "le idee occidentali di democrazia" nel mondo non occidentale, comprende l’appropriazione di un patrimonio globale come se fosse proprietà esclusiva dell’occidente.
I dubbi sull’opportunità di "imporre" le idee occidentali a società non occidentali si uniscono all’assenza di dubbi nel considerare la democrazia come un’idea squisitamente occidentale, un’immacolata concezione occidentale.
Quest’appropriazione indebita è il risultato della grossolana ignoranza della storia intellettuale delle società non occidentali, ma è anche la conseguenza dell’errore concettuale di considerare la democrazia soprattutto in termini di elezioni piuttosto che nella più ampia prospettiva dell’esercizio della ragione pubblica.
Una maggiore comprensione delle esigenze della democrazia e della storia globale delle idee democratiche può contribuire a migliorare l’attuale pratica politica. E può anche contribuire a rimuovere parte dell’artificiosa nebbia culturale che oscura la comprensione della storia contemporanea.

Traduzione di Maria Giuseppina Cavallo

Amartya Sen

Amartya Sen, Nobel per l'economia nel 1998. Amartya Sen è stato presidente dell'Econometric Society, dell'International Economic Association e dell'Indian Economic Association. Attualmente insegna a Harvard e al Trinity College.