Gianni Riotta: Caro Castelli, anche da colpevole è bene che Sofri lasci il carcere

12 Dicembre 2005
Il caso di Adriano Sofri, fondatore di Lotta Continua, condannato per l’assassinio del commissario Luigi Calabresi nel 1972, giornalista di successo, bibliotecario alla Normale di Pisa, è così intimamente legato alla storia d’Italia e alla falsa coscienza di una generazione, da risultare intrattabile all’opinione pubblica. In un paese che si vanta - a torto - di anticonformismo, l’innocenza di Sofri è garantita a destra e sinistra, la sua firma appare su giornali paladini o avversari di Berlusconi. La sinistra, capace ormai di dubitare di tutto, della condanna di Mussolini, della bontà del Che, della cattiveria di Stalin, delle nequizie del mercato, del pericolo cibi transgenici, dove perfino Cossutta denuncia falce e martello, è unificata solo dal caso Sofri. Non trovate un esponente dell’Unione, una firma della galassia opposizione, un intellettuale di grido, che dissenta: il processo Sofri è stata una congiura, ordita secondo lo storico Carlo Ginzburg dagli apparati dello stato per vendicarsi, non si sa bene di chi, se Lotta Continua o il suo fondatore. La destra gongola nell’agitare contro i giudici detestati una vittima di sinistra. Qualcuno (il mesto scrittore Erri De Luca) si dice pronto a confessare, ma solo quando ‟Sofri sarà libero”, e vedremo se manterrà la parola. Inutile ribattere che analoghe ‟vendette” non sono state esercitate su nessun altro leader del ‘68, neppure sui terroristi militanti che si aggirano per i talk show, ingrassati, pentiti quanto basta, sereni. Né si capisce come mai, con gli altri dirigenti di Lc attivi nei partiti, nelle professioni, in parlamento, solo per il suo fondatore sarebbe stata organizzata la velenosa faida, complice il reo confesso Marino. Inutile avanzare argomenti raziocinanti: la vergogna che la responsabilità del sangue di Calabresi cada, a tragica pioggia, su una generazione chiama alla cecità morale. Il paradosso logico, politico e giudiziario porta all’indegna situazione di oggi. In gravi condizioni di salute, oggetto di operazioni chirurgiche e tracheotomia, Sofri attende un provvedimento di grazia o sospensione della pena, che lo rimandi a una convalescenza umana. Poiché l’opinione pubblica lo ritiene innocente, poiché i colpevolisti sono minoranza spesso petulante, Sofri resta invece ostaggio della sua fama, della sua immagine simbolica di un passato con cui abbiamo terrore di fare i conti. La confusione morale non è aiutata dalla foga polemica della campagna pro Sofri (un critico azzittito come ‟mafioso”, le accuse a Calabresi reiterate, ironie sui familiari del commissario), né dai conti in sospeso con la memoria della Repubblica. Basterebbe allora che, come più volte ha indicato con dignità il presidente Ciampi, il ministro della Giustizia Castelli agisse con serenità. Sofri ha scontato all’incirca la pena media che un omicidio comporta in Italia, oltre ai penosi anni di processo che il nostro sistema impone come ‟precondanna”. È, a giudizio di un lungo percorso giudiziario, colpevole e la lettura degli atti, senza rabbia né odio, corrobora la sentenza: nessuno ha mai spiegato perché Marino si sarebbe inventato tutto. Giudicato colpevole, Sofri ha scontato la pena. La nostra legge chiede che la condanna sia rieducativa non solo punitiva e non si cura se il condannato susciti simpatie o antipatie. Malato, dopo anni di cella, Sofri deve pensare a curarsi e tornare a scrivere i suoi, non di rado intelligenti, editoriali. Rifletta il ministro Castelli: che glielo chiedano in coro tanti innocentisti può irritarlo e indurlo a prudenza. Ma anche chi approva la sentenza sull’omicidio Calabresi sente ora un prolungamento della detenzione di Adriano Sofri come inutile vendetta. Un provvedimento alla vigilia del Natale che rimandi Sofri alle cure dei suoi cari suona equo ed urgente, magari dando uno sguardo anche ai casi di tanti detenuti non famosi, di troppo nelle sovraffollate patrie galere.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …