Gianni Riotta: La giusta giustizia

07 Luglio 2006
L’espressione ‟all’italiana” ha due opposti significati. Può voler dire un lavoro ben fatto, creatività e fascino, Vespa e Ferrari, il design di Mario Bellini, il cavallo al soffitto dello scultore Cattelan, il pianoforte di Pollini, i progetti di Piano, Gregotti, Aulenti, una pizza margherita, una piastrella lucente. Oppure ‟all’italiana” vuol dire un lavoro malfatto e corrotto, tirato per le lunghe, appaltato agli amici degli amici, case nella Valle dei Templi, i burocrati contro la Tav, la tv cortigiana. Il 4 luglio 2006 il calcio ha incarnato insieme il meglio e il peggio dell’‟Italian job”. ‟Lavorare all’italiana” è stato contemporaneamente il match perfetto che la Nazionale azzurra di Marcello Lippi ha disputato contro la storica nemesi bianca della Germania di Jurgen Klinsmann, e la vergogna dello scandalo descritta dalla requisitoria del pubblico ministero Palazzi, al processo di Roma. Il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha detto ‟il declino non è inevitabile” ma se vogliamo festeggiare il 4 luglio come giorno dell’indipendenza dallo sfascio, la scelta è nitida. Se vivere ‟all’italiana” sarà per noi aggirare le regole, violarle, applicarle agli avversari e cancellarle ai clienti, distribuire potere ed incarichi ai sodali, allora come Paese meritiamo la C. Se ‟all’italiana” vuol dire invece giocare in campo aperto con il meglio del mondo, come gli azzurri a Dortmund, difendendo il nostro passato - la difesa, il contropiede - aperti al nuovo nella tattica offensiva dei supplementari, allora saremo la sorpresa dell’economia globale. La difficoltà, fuori e dentro il calcio, è che non esistono due nazioni ‟all’italiana”, una virtuosa, efficiente, creativa, l’altra corrotta, clientelare, feudale. I due popoli si mischiano, il fantasista di oggi è il burocrate di domani, il genio innovatore del mattino è il corporativo fiacco del crepuscolo. Il 4 luglio ha visto Fabio Cannavaro, che nel vespaio delle intercettazioni è il calciatore che gioca bene o male secondo gli interessi dei padrini, come il capitano coraggioso che non sbaglia un solo intervento in 540 minuti di gioco, e smonta ironico la teppa razzistella dei giornali tedeschi sul boicottaggio della pizza ‟Chi vo fà fà?”. E Lippi, che ha lasciato troppo esposto il figlio Davide in compagnie dubbie, è tornato il genio tattico che costringe Klinsmann a muovere per primo la Regina, mettendolo sotto scacco. I picchiatori Materazzi e Gattuso sono stati picchiati sopportando con stoicismo, Totti non ha sputato, Buffon, Pirlo, Gilardino, Zambrotta e Del Piero hanno confermato che anche senza arbitri e guardalinee felloni sanno giocare al football. Per questo i tifosi, appartengano ai club accusati o a quelli estranei allo scandalo, siano fedelissimi di Berlusconi che lamenta ‟il processo è politico” o elettori del Prodi tifoso in tribuna, possono dividersi sulle condanne di Roma, sulla politica e i taxi, ma palpitano insieme al gol di Grosso. Perché tutti vorremmo che ‟all’italiana” significasse perbene e di successo, non grottesca corruzione. L’Italia va domenica alla sua sesta finale mondiale e noi le mandiamo l’augurio da tifosi che nessuna fazione può appaltarsi o detestare: ‟Forza, Italia!”. Forza, Italia, spavalda, astuta e leale (i tedeschi non hanno restituito un fallo laterale e Lehmann e Ballack hanno provocato ‟all’italiana” come due Cassano qualunque), capace di farsi ammirare dalla stampa internazionale e dagli sportivi sinceri, ovunque. Che monito la partita di Dortmund, dal calcio al Paese! Se premiamo la virtù e, con le regole, penalizziamo la frode, apriamo un circolo virtuoso e il Cannavaro delle manfrine diventa gladiatore e il Lippi che non si avvede degli arbitri addomesticati diventa mister da applaudire. Possiamo scegliere che Italia essere, senza separare isterici i buoni dai cattivi, ma con regole condivise per togliere potere agli affaristi. Sarebbe bellissimo che la quarta stella mondiale sulle maglie azzurre brillasse su una giustizia sportiva capace di fare ordine senza vendette furiose. E che lo sport amato da milioni ispirasse non un’amnistia, un volgare colpo di spugna che sporcherebbe la fatica dei nostri atleti, ma un senso della misura che non umiliasse Juventus, Milan, Lazio e Fiorentina. Per colpire i manigoldi con fermezza, ma dando ai colori delle squadre spazio e tempo per rinascere.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …