"Vieni dalla Germania, giovanotto?".
"Sì."
"Dal campo di concentramento?"
"Naturale."
"Da quale?"
"Da quello di Buchenwald."
Sì, ne aveva sentito parlare, sapeva anche che "era uno dei gironi dell'inferno nazista", si espresse proprio così.
"Da dove ti hanno deportato?"
"Da Budapest."
"Quanto tempo ci sei stato?"
"Un anno, più o meno."
"Probabilmente ne hai viste tante, giovanotto, orrori di ogni genere," commentò e io non dissi niente. "Va be', l'importante è che sia tutto finito e passato," e mentre la sua faccia si rischiarava mi indicò le case che sfilavano davanti a noi e volle sapere che cosa provassi, di nuovo a casa, alla vista della città che avevo lasciato allora. Dissi:
"Odio".

Per un attimo tacque, poi però osservò che, purtroppo, era costretto a comprendere il mio sentimento. Del resto, "a seconda delle circostanze", anche l'odio aveva un suo posto, un suo ruolo, "persino una sua funzione", e aggiunse di presumere che in questo fossimo concordi e che sapeva bene a chi fosse rivolto il mio odio. Dissi:
"A tutti".

Tacque di nuovo, questa volta un poco più a lungo, e poi domandò: "Hai dovuto sopportare molte atrocità?" e io dissi che dipendeva da quello che lui intendeva per atroce. Sicuramente, disse allora con un'espressione di disagio sulla faccia, ero stato privato quasi di tutto, avevo patito la fame e probabilmente ero anche stato picchiato, e io: "è naturale". "Giovanotto," esclamò, ma al tempo stesso ebbi l'impressione che stesse lentamente perdendo la pazienza, "perché dici sempre che è naturale, e soprattutto per cose che non lo sono affatto!" Gli dissi che nel campo di concentramento tutto questo era naturale. "Sì, certo," mi rispose, "là è vero, ma..." e qui si bloccò, esitò un attimo, "ma... voglio dire, il campo di concentramento in sé non è naturale!" finalmente aveva azzeccato su per giù la parola giusta e, infatti, io non replicai, perché un po' alla volta cominciavo a capire: di certe cose non si può discutere con estranei, con gente ignara, in un certo senso con dei bambini, diciamo così.


Estratto da Essere senza destino di Imre Kertész, scrittore ungherese Nobel per la Letteratura, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti.

Chi è Imre Kertész
Imre Kertész, nato nel 1929 a Budapest, è stato deportato nel 1944 ad Auschwitz e liberato a Buchenwald nel 1945. Tornato in Ungheria nel 1948, ha lavorato prima come giornalista, poi per mantenersi ha iniziato a tradurre (tra gli altri Freud, Nietzsche, Canetti, Wittgenstein) e a scrivere romanzi e opere per il teatro. Il libro Essere senza destino (Feltrinelli, 1999, premio Flaiano 2001) per molto tempo non ha trovato un editore in Ungheria, una volta uscito è stato ignorato e il suo autore messo al bando. Kertész, che ha dovuto attendere il crollo del muro di Berlino per vedere riconosciuta la propria opera, in patria e all’estero, ha vinto il Premio Nobel per la letteratura nel 2002 e il premio Lettura del Grinzane Cavour nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato anche Fiasco (2003), Liquidazione (2005), Kaddish per il bambino non nato (2006), Storia poliziesca (2007) e Dossier K. (2009).

I libri di Imre Kertész.

Essere senza destino di Imre Kertész

"Non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d'ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell'intervallo tra i tormenti c'era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre d…