Alain Touraine: La via della guerra all’Iraq dopo il crollo di Wall Street

23 Agosto 2002
Si è potuto credere, a un dato momento, che le disonestà commesse dalla Enron e coperte dall’importante studio Arthur Andersen avrebbero rivelato i comportamenti illegali di qualcuna delle maggiori compagnie americane. Ma gli esempi di bilanci consapevolmente falsificati si sono andati moltiplicando. è emerso il coinvolgimento di vasti settori industriali, come ad esempio quello farmaceutico, in particolare attraverso la sua terza impresa mondiale, la Merk. La diffidenza si è estesa anche alle industrie tradizionali e persino alla persona di J. Welch, già titolare della General Electric, emblema del successo americano, il cui manager era, prima di essere eletto, il vicepresidente Cheney, poi chiamato in causa direttamente in quella veste. è corsa voce infine che talune operazioni condotte dallo stesso presidente fossero di natura analoga - sia pure in formato ridotto - a quelle imputate alla WorldCom.
Questi numerosi e gravi infortuni hanno scatenato nel capitalismo americano una crisi di fiducia. Quando il presidente ha duramente denunciato il malcostume di Wall Street, ha fatto giustamente appello alla tradizione liberale nella concezione di Locke, che vede nella fiducia la base dell’economia di mercato. Lasciamo da parte la rimonta dell’euro alla parità con il dollaro, che potrebbe creare più imbarazzo all’Europa che all’America, ove la Federal Reserve si preoccupa di rilanciare l’economia. E lasciamo da parte anche il caso Vivendi Universal, rivelatore, più che di una crisi di ordine generale, della fragilità dell’impero costruito da Jean-Marie Messier: la sua lodevole intenzione di creare convergenze industriali ben remunerate si è rapidamente trasformata in un’operazione finanziaria che ha condotto a un massiccio indebitamento, e al brusco crollo delle azioni. Ciò che è in discussione è il funzionamento stesso dell’economia americana.
In un passato non molto lontano, gli imprenditori producevano, grazie ai loro investimenti e in parte anche indebitandosi, per vendere i loro prodotti; e la Borsa emetteva un giudizio sul loro successo o insuccesso. Da quando il boom tecnologico degli anni '80-’90 ha fatto divampare il settore borsistico, la cui evoluzione è esemplificata dal Nasdaq, il sistema di gestione si è completamente trasformato. La Borsa, anziché costituire il traguardo finale, cerca di attirare capitali promettendo per anticipazione elevati profitti. I consumi del terzo più facoltoso della popolazione americana, arricchito dai guadagni borsistici, prendono così il volo, consentendo l’aumento della produzione.
L’economia americana avanza sempre più "di testa", anziché camminare con i propri piedi. A partire da questo momento, si è sempre più tentati dai vari modi per gonfiare il valore borsistico delle imprese e dare smalto alle anticipazioni, fornendo al pubblico cifre che si allontanano dalla realtà. Inoltre - cosa ancora più importante - i Consigli d’amministrazione, euforici per i risultati in ascesa, non dedicano sufficiente attenzione, soprattutto in Europa, al funzionamento reale delle imprese. La crisi americana è diversa da quella giapponese, ma in entrambi i casi l’economia è fagocitata dalla finanza. Quanto ai paesi europei, sono trascinati nel forte calo delle Borse, che colpisce persino settori produttivi meno direttamente coinvolti nella perdita di fiducia. Ciò che ora è in gioco è dunque molto più della sorte di alcune grandi imprese. è la messa in discussione di tutto il sistema di finanziamento a provocare questa crisi di fiducia, sopravvenuta nel momento in cui l’economia americana era arrivata a un’egemonia incontestata sul resto del mondo. Sembra ancora di sentire le espressioni di soddisfazione pronunciate in occasione del Forum di Davos, che l’anno scorso è stato spostato a New York, e di fatto si è riunito sotto la sfolgorante stella del Forum di Porto Alegre. Ma a questo punto, come non spingersi più in là? è stato proprio durante la riunione del Forum di New York che Colin Powell, ritenuto un moderato, ha annunciato a nome del presidente il cambiamento di priorità deciso dagli Stati Uniti. Oramai - cioè all’indomani dell’attentato dell’11 settembre - bisognava definire un asse del male; e non limitarsi a perseguire i responsabili degli attentati, ma attaccare direttamente gli stati ostili agli interessi americani - e in primo luogo l’Iraq - senza attendere quella catastrofe che sarebbe - o sarà, in un futuro molto prossimo - il crollo dell’Arabia Saudita. La logica delle armi prende il sopravvento sulla logica dei prodotti. L’adesione nazionale diventa più importante della fiducia nelle grandi compagnie, nei loro analisti finanziari e osservatori di vario tipo. L’indomani dell’11 settembre, questa coesione nazionale si è manifestata nella solidità e nella dignità, senza xenofobia né razzismo. Ma più dell’opinione pubblica, è stato il governo a scegliere di dare la priorità alle armi piuttosto che alle tecniche e all’economia. Nel momento in cui in tutto il mondo numerosi gruppi attaccano la globalizzazione, concepita come uno strumento dell’egemonia americana - cosa questa che rappresenta un nuovo e importante elemento di crisi della potenza economica Usa - i leader supremi degli Stati Uniti, sia perché hanno risentito fortemente l’imprevisto, impensabile attacco dell’11 settembre, sia per mancanza di fiducia nella solidità di un paese che non si fida più dei suoi dirigenti economici, sono passati all’offensiva. Qualcuno potrà vedere in questo una semplice mossa a effetto. I dirigenti iraniani non si sentono minacciati dagli attacchi nei loro confronti, tant’è vero che hanno aiutato gli Usa in Afganistan. Ma sembra che sia effettivamente in preparazione una spedizione contro l’Iraq; e più in là, la situazione in Pakistan si sta lentamente deteriorando. Ma soprattutto, il barile di petrolio sul quale siede l’Arabia Saudita può scoppiare da un momento all’altro.
La carta del mondo è cambiata. L’Europa, che non ha armi, ha assunto le dimensioni della Svizzera; l’America latina non conta; l’Africa è un lontano ospedale. La polarizzazione del mondo si è accentuata, e un conflitto carico d’odio, violenza e sacrificio scatena forze più potenti delle menzogne di Wall Street. L’Europa merita, certo, un secondo sguardo, che però non dà risultati opposti a quelli del primo. La maggior parte dei paesi - come la Gran Bretagna, l’Italia e la Spagna - sono innanzitutto filoamericani. La Francia continua a interessarsi poco all’Europa, e la politica tedesca dipende dalla vittoria di Schroeder su Stoiber, che non è acquisita. L’Europa deve affrettarsi a dire se rinuncia ad essere una potenza mondiale, e a porsi obiettivi più ambiziosi della parità dell’euro con il dollaro. Oppure se, al contrario, vuole raggiungere gli Stati Uniti nella produzione della conoscenza e dell’innovazione, e soprattutto se vuole disporre di armi che le permettano di elaborare e realizzare strategie indipendenti, conformi ai suoi interessi.

(Traduzione di Elisabetta Horvat)