Umberto Galimberti: Ma il nudo stanca

28 Agosto 2002
Dopo l´orgia che si fa? Si fa l´amore con gli animali? Già fatto. Con i vegetali? Pure. Con la materia inanimata? Non so. Ma a giudicare dagli attrezzi che si vendono nei sex shop, pare che anche l´inanimato faccia parte del gioco erotico. In realtà siamo saturi per sovrabbondanza di visioni sessuali, giocate su tutti i registri: dalla pubblicità, dove si vorrebbe far desiderare un prodotto con la stessa intensità con cui si desidera il sesso, alla pornografia in edicola, al cinema, in televisione, in Internet, perfino in quella solitudine monastica e onanistica che sono le chat-line, dove il principio della distribuzione massiccia di sesso rende normale ciò che è ovunque diffuso.
Là dove un seno reclamizza un telefonino e un paio di cosce un´automobile di lusso, allora dobbiamo dire che il mondo delle merci e la pubblicità che lo reclamizza sono diventati i veri proprietari del corpo femminile, per lo meno nella sua immagine sessualmente attraente. Che poi anche le donne possiedano un corpo, al di là della sua utilizzazione pubblicitaria, diventa un fatto puramente casuale e d´importanza secondaria.
Nel momento infatti in cui l´attrazione sessuale diventa attrazione per le merci, la sessualità cessa di essere un tabù. L´odierna mancanza di pregiudizi sulle cose del sesso, il crollo della «pruderie», lungi dall´essere un´emancipazione progressista, sono figli della libertà della pubblicità, quindi un fatto esclusivamente commerciale.
In un mondo completamente erotizzato abbiamo perso la consapevolezza che la parole «pubblicità» aveva alle origini uno stretto significato erotico. Si riferiva infatti alla «donna pubblica», alla prostituta come merce. Oggi è l´universo delle merci a offrirsi come universo di prostituzione e, nell´abbondanza delle merci divenute simili a lei, la prostituta ha perso il fascino di cui ancora godeva nella prima metà del secolo scorso ed è diventata un personaggio squallido che deve inseguire il luccichio delle merci per destare una qualche attrazione.
Il risultato, per paradossale che sia, è che ciò che è normale non attrae, e ciò che è ovunque diffuso e disponibile spegne il desiderio. Infatti, quando cessa di essere enigmatica, la sessualità diventa crudele, perché mi esclude dalla possibilità di scoprire. A questo punto, l´osceno è già accaduto, e non nella sessualità scomposta del corpo nudo, ma nella ripetizione monotona e prolungata di questa gestualità, dove un corpo senza volto si offre con le cadenze ossessive di uno spasmo che ha più parentela con i ritmi della morte che con quelli del desiderio.
Ne è prova la bocca chiamata dalla seduzione erotica a simulare il sesso femminile. Una bocca semiaperta e semichiusa che non può più parlare né mangiare, né ridere, né baciare, perché solo nella negazione delle sue funzioni naturali può fare la sua comparsa la funzione erotica. Lo stesso vale per gli occhi, sofisticati e disposti in modo che non si aprano su niente e non guardino nessuno, per cui chi li ammira non incontra un volto, ma un oggetto seducente che impegna solo il proprio onanismo.
Il corpo spogliato e artificialmente prodotto per la seduzione erotica non dispiega una scena intorno a sé, in cui anche le cose dicono le sue intenzioni, ma è semplicemente messo in scena, e perciò è o-sceno, perché è offerto secondo quelle regole del gioco che lo fanno più nudo di quel che sia.
Nudo della nudità del cerimoniale erotico che rende il corpo inespressivo, perché ogni espressione è demandata alle vesti, agli accessori, ai gesti, alla musica, alle luci, secondo le tonalità che la tecnica sapientemente distribuisce per creare il desiderio al solo scopo di arrestarlo davanti alla «messa in scena», dove non si celebra la sessualità del corpo ma la sua castrazione. In questo senso la seduzione erotica gioca con la morte, e quindi, per sadica che sia, è sempre irrimediabilmente masochista.
A questo punto è inutile che psicologi e sociologi ci vengano a dire che gli uomini hanno paura delle donne. Se il modello di riferimento è il corpo nudo della donna-copertina che gli stilisti incessantemente ci propongono, ebbene si tratta di una donna desessualizzata nel momento stesso in cui gli stilisti la rivestono o la spogliano, mettendo così in scena una sorta di spettacolo della paura, come se l´erotismo dovesse arrestarsi alle soglie dei loro abiti, portati con quei gesti rituali che vogliono ad un tempo provocare l´idea del sesso e insieme la sua esorcizzazione.
Dopo aver ridotto il pubblico a semplice rappresentante di un generico voyeurismo, questo sguardo, che teme la donna, maschera la sua paura accarezzando il corpo femminile con tutta la delicatezza del suo raffinato manierismo e, dopo aver agghindato la sua creatura con tutti gli accessori e gli stereotipi di cui è capace, finisce per inghiottirla nell´insignificanza, ostentando la sua nudità al solo scopo di renderla inaccessibile, e al limite esorcizzarla. Alcuni frammenti di erotismo, appena accennati dalla deambulazione sulla passerella, sono riassorbiti in quel rituale rassicurante che è il sistema (economico) della moda, che cancella l´elemento della sessualità femminile con tanta decisione e sicurezza, quanto un buon vaccino può fare nei confronti di una malattia infettiva.
E allora a fiumi quell´erotismo stereotipato che allontana il corpo della donna nel favoloso e nel romanzesco, all´unico scopo di ridurre la donna a puro e semplice oggetto travestito, al punto che, se il nudo traspare, resta anch´esso un nudo irreale, perfettamente chiuso come un bell´oggetto sfuggente e astratto per la sua lontananza e stravaganza rispetto alla consuetudine umana. Nella moda, infatti, tutto ciò che è femminile, seducente e invitante è avvolto in quella atmosfera di purezza diafana che spranga la femminilità come potrebbe fare una porta trasparente e blindata di una gioielleria, dove la donna è esposta come una pietra preziosa e, in questa preziosa esposizione, irriducibilmente ridotta a oggetto totale e inutile.
E allora, nonostante il suo innegabile tripudio e la sua ostentazione senza limiti, a me vien da dire che, nella nostra consumata cultura, non c´è più sessualità, perché ciò che si persegue è la parodia della sessualità, già ampiamente controllata dai produttori della sessualità, che l´hanno iscritta nella «contrattazione» e nella «ripetizione», dove ciò che si legge è solo l´estinzione del desiderio e il suo inganno.
Infatti nel proliferare incontrollato di immagini sessuali, sulle strade, sugli schermi, sulla carta stampata, la sessualità è estinta in ciò che ha di potenzialmente sovversivo e creativo, perché ciò che si lascia circolare sulle strade, sugli schermi, sulla carta stampata è solo la ripetizione monotona di una promessa mancata.
Nel sesso, infatti, parla l´altra parte di noi, quella follia notturna che l´io diurno tiene a bada per garantire la vita di ogni giorno. L´ostentazione indiscriminata della sessualità, con le sue regole di contrattazione e ripetizione, non libera quella follia, ma ribadisce a ogni insorgere del desiderio l´ineluttabilità della sua sconfitta.
L´alleanza di Eros e Morte appare qui in tutta la sua evidenza, perché la continua esibizione della sessualità non offre sesso, ma professionismo, produttivismo e ripetizione: le regole diurne dell´io, non gli sconfinamenti di quella follia notturna che ci abita e che trova nella sessualità non professionale, non contrattata e non ripetitiva, la sua prima parola.
Di qui l´invito a oltrepassare l´immaginario sessuale per entrare davvero nel gioco, dove da esperire non ci sono più le solite oscillazioni tra codici e devianze, ma più semplicemente - e qui la semplicità diventa abisso - l´incontro con il ritmo dell´indicibile, di «ciò che non si riesce a dire» (Platone), di «ciò che non si può dire» (Freud) perché abita l´inconscio o, come vuole ancora Platone, il «fondo enigmatico e buio», quell´inarticolato che resta al di là dell´articolazione di tutte le parole.
Questa parola temuta, questa parola da cui ogni giorno con le nostre regole ci difendiamo, questa parola che parola non è, ma piuttosto spasmo e grido, è tenuta a bada dalla sovraesposizione della sessualità, che svolge l´unico compito di farci assaporare non le cose come veramente sono, ma le immagini rarefatte e inscrivibili in quei testi e contesti dove a esser fuori scena è sempre e solo la sessualità in quel che di più profondo ha da dirci. Per questo, lo ripetiamo, la sessualità è o-scena. La scena, infatti, è occupata solamente dalla sua recitazione, se non addirittura dalla sua parodia.
Che sia qui, nell´elisione della sessualità vera e propria, la funzione sociale dell´odierna overdose di sessualità? Al seguito di tutte le figure d´ordine, anche questa overdose svolge il suo: volatilizza il nostro desiderio nell´immaginario e lo arresta al limite della visione.
Non oltrepassando quel limite, l´individuo evita di mettere in gioco la sua identità, e la società il suo ordine. In quest´orgia di immagini, tutto resta integro.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …