Marco D'Eramo: America batte resto del mondo 15 a 0

09 Novembre 2002
"Amuso duro" ha parlato ieri mattina dai giardini della Casa Bianca il presidente George W. Bush, subito dopo che il Consiglio di sicurezza aveva adottato all'unanimità la risoluzione sull'Iraq. Il tono del presidente americano è stato molto più minaccioso e intimidatorio delle dichiarazioni di voto dei 15 delegati al Palazzo di Vetro: "La risoluzione approvata oggi costituisce un test, il test finale, per il regime iracheno. L'Iraq deve subito, senza ritardi o negoziati, disarmare completamente, accettare in pieno le ispezioni e cambiare fondamentalmente l'impostazione che ha mantenuto per più di un decennio". L'accettazione irachena, ha detto Bush "deve essere pronta e incondizionata". In caso contrario, ha minacciato "severe conseguenze": "L'Iraq può essere certo che il vecchio gioco, altre volte tollerato, dei trucchetti e del nascondino, non sarà più tollerato". "Se l'Iraq non ottempera pienamente, gli Stati uniti ed altre nazioni disarmeranno totalmente Saddam Hussein", non eslcudendo cioè una guerra unilaterale. Perciò, nella versione di Bush, la risoluzione dell'Onu somiglia molto alle condizioni capestro poste sul Kosovo alla Serbia a Rambouillet nel 1998. Certo è che Bush è stato più duro del testo votato, che pure non è tenero con Baghdad, anche se il presidente Usa si è trattenuto dall'esigere un cambio di regime in Iraq, come invece aveva sempre fatto nei mesi scorsi (non pretendere più la caduta di Saddam Hussein è considerato un contentino dei falchi dell'amministrazione al segretario di stato Colin Powell).
Così solo i prossimi 30 giorni ci diranno se la risoluzione di ieri è stata soltanto un ultimatum che apre la via alla dichiarazione di guerra contro l'Iraq, o è stata invece un primo, parziale accenno di ricomposizione della crisi. La mozione dà infatti 7 giorni di tempo a Baghdad per far sapere se accetta tutte le condizioni dell'Onu, e 30 giorni per fornire all'Agenzia internazionale dell'Energia (Iaea) e alla Commissione di osservazione, verifica e ispezione delle Nazioni unite (Unmovic: è questa la sigla che sarà sulla bocca di tutti nei prossimi mesi) un rendiconto completo e dettagliato su tutti i programmi bellici, i loro siti, i loro equipaggiamenti. La risoluzione esige che le ispezioni in qualunque località irachena (compresi i palazzi presidenziali di Saddam) comincino non più tardi di 45 giorni a partire da ieri e siano completate nei successivi 60 giorni. Le ispezioni dovrebbero perciò essere completate non più tardi del 21 febbraio 2003.
La mozione è stata presentata da Usa e Gran Bretagna nella sua terza versione, dopo otto settimane di intensi negoziati, soprattutto con Francia e Russia, negoziati che si sono incagliati spesso sulla scelta di una singola parola o su una virgola. La risoluzione è stata votata all'unanimità dai 15 membri del consiglio di sicurezza (fino all'ultimo momento pareva che la Siria si sarebbe astenuta, e ieri mattina circolavano ancora dubbi sulla posizione russa). Subito i mass media americani hanno osannato quest'unanimità come una "vittoria storica", accentuando il tono adulatorio che usano nei confronti di Bush, soprattutto a partire dalla sua vittoria elettorale martedì: "gli Usa hanno vinto 15 a 0" è il titolo tv più usato, in una terminologia tennistica. D'altronde, proprio giovedì, nella conferenza stampa dopo la vittoria alle elezioni di metà mandato, Bush aveva già dato per scontata l'approvazione della mozione da parte del Consiglio di sicurezza, dopo aver parlato al telefono col presidente francese Jacques Chirac e quello russo Vladimir Putin.
Certo è che il voto dell'Onu sarà considerato un altro "trionfo" di Bush. Ma la realtà è più sfumata. Probabilmente non sapremo mai quali concessioni Bush ha dovuto fare alla Francia e alla Russia per covincerle a non opporre il veto. Si parla dei grandi interessi economici (investimenti, contratti, crediti) che francesi e russi hanno con Baghdad e che perderebbero in caso di cambio di regime. Si parla anche di chiudere gli occhi sulla repressione russa in Cecenia in nome della "guerra al terrorismo". Ma la diplomazia statunitense ha dovuto faticare anche con paesi più piccoli, membri non permanenti del Consiglio. Per esempio, gli Usa davano per scontato un voto favorevole del Messico. Ma dopo l'11 settembre gli Stati uniti avevano snobbato per un anno il presidente Vicente Fox, avevano reso la vita più difficile agli immigrati messicani, deportato più clandestini e chiuso molte maquiladoras al confine. Risultato, i messicani si sono fatti pregare per un mese, brandendo un'opposizione di principio alla guerra.
E anche negli Stati uniti, il consenso sulla guerra è molto più fragile di quel che sembra a prima vista. Gran parte dell'establishment economico è preoccupato dalla prospettiva di una guerra che potrebbe far piombare nella recessione un'economia già fragile: è significativo che, appena avuta notizia del voto Onu, Wall street abbia fatto un capitombolo di 77 punti dell'indice Dow Jones.
Lo stesso appoggio dell'opinione pubblica è più problematico di quel che sembra. È vero infatti che il 58% degli americani dichiara di essere favorevole a una guerra contro l'Iraq, ma questa percentuale va analizzata: intanto il numero dei favorevoli scende mese dopo mese (in primavera erano l'80%). Inoltre, questo 58% crolla sotto il 40% se la guerra dovesse comportare un rilevante prezzo di vite americane, e scende ancora se la guerra non fosse combattuta da una coalizione delle Nazioni unite.
Gli americani sono cioè favorevoli alla guerra se non è una guerra, ma se si risolve in una mera azione di "polizia internazionale": a causa del martellante conformismo dei media, soprattutto tv, gli americani sono convinti che Saddam Hussein è un gangster, un criminale, e davvero costituisce un pericolo per l'America. "Se la prima tesi è plausibile, mi dice Jim Weinstein, fondatore del quindicinale In These Times, "la seconda è inverosimile: come le spediscono le loro eventuali armi negli Usa, a 12.000 km di distanza, con l'Ups?"
Perciò della guerra contro l'Iraq, l'opinione pubblica americana ha per ora un'immagine di "retata planetaria", d'"irruzione nel covo di Saddam". Ma il clima negli Usa è tutt'altro che bellicoso. Gli americani sono incerti sul proprio futuro, si sentono vulnerabili al terrorismo, sono preoccupati per i costi crescenti della sanità, delle assicurazioni, delle rette universitarie che sono salite alle stelle. In tutti questi mesi in America, dalle pianure del Texas, alle metropoli californiane, da New York a Chicago, negli aeroporti, nei bar, nelle università, nei ricevimenti, non ho mai sentito nessuno, ma proprio nessuno dichiararsi a favore dell'attacco all'Iraq.
"Lo straordinario", continua Weinstein "è che ci sia questo 40% di contrari anche se nessuna tv ha mai dato voce ai dubbi sulla reale consistenza del pericolo iracheno, né ha mai dato spazio alle incertezze del dopo-Saddam, ai rischi di disintegrazione dell'Iraq, di ascesa di un regime fondamentalista sciita nel sud, di esplosione della questione kurda in Turchia e in Iran. È un meccanismo che si mangia la coda: poiché i mass-media sono al 100% sdraiati su Bush, nessun leader politico osa dissentire, ma poiché non c'è nessuna voce di prestigio che si leva contro la guerra, nessun mass-media riferisce le posizioni pacifiste. Pensa quanti di più diventerebbero questi 40% se qualche tv cominciasse a instillare dubbi su una guerra dichiarata a freddo!".

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …