Alberto Arbasino: Agnelli. Quell´uomo di charme un po´ re, un po´ banchiere

27 Gennaio 2003
Con la verve e l´allure di un sovrano settecentesco vivacissimo, e di un banchiere cosmopolita carismatico e seducente (benché producesse macchine non molto chic).
Mentre tutti i parvenus osservavano affascinati i polsini e i cinturini e i bottoni (e non i dettagli della 124 o della 850), i cosiddetti «vecchi dei circoli» notavano compiaciuti che quella fatuità apparente discendeva dagli insegnamenti severissimi della tradizionale Scuola Militare di Cavalleria, a Pinerolo. Mai mostrarsi preoccupati o ansiosi, davanti ai sottufficiali e alla truppa. Anzi, ostentare disinvoltura e noncuranza soprattutto davanti ai dolori e ai pericoli, alla testa dei reggimenti. («Una volta si andava a battaglia - come a un ballo cantando si va - pare pioggia di fior la mitraglia - rataplàn, rataplàn, rataplàn!» ... Altro che cuore in mano, o «si salvi chi può», o «piove governo ladro», o «signora mia», in quel Risorgimento).
Altro che «leggerezza calviniana», anche. C´era piuttosto dietro, ovviamente, la tradizionale «sprezzatura» prescritta da Baldesar Castiglione ai gentiluomini del Rinascimento: «Usare in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l´arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi». Hemingway avrebbe parlato di «grazia sotto pressione», in prima linea. E perfino Giordano Bruno, a Oxford: «Sempre ilari nella tristezza, e semmai tristi nelle ilarità altrui». Addirittura Benedetto Croce: «Vittorio Emanuele II aveva serbato non poco del vecchio re di razza, la qual cosa conferiva al suo prestigio presso il popolo, che trovava rispondente al proprio concetto di un re il suo aspetto e piglio soldatesco, il suo abito di gentiluomo campagnolo e cacciatore, la franchezza e la sprezzatura dei suoi modi».
I più attenti a quella sua dizione così caratteristica potevano forse riconoscervi qualche traccia dell´elegante garbo del precettore Franco Antonicelli, musicale e «flautato» come la recitazione dei grandi attori signorili quali Ruggero Ruggeri e Renzo Ricci. Ma i vecchi di mezzo secolo fa ricordavano soprattutto i giovani Vittorio De Sica e Umberto Melnati ed Enrico Viarisio in un famoso sketch sul birignao dei colonnelli di cavalleria, nelle riviste «Za-Bum» degli anni Trenta. E le signore più navigate: ci dev´essere stato qualche parente ebreo per spiegare l´arguzia dello charme e dei tratti.
E gli amici più affezionati: lui e Marella sono innazitutto due grandi giornalisti, con questa enorme passione per i giornali e la fotografia.
Ma dietro quel senso visuale così raffinato e acuto (mentre a qualunque musica G.A. si annoiava moltissimo), sembra di rivedere due eccellenti torinesi scomparsi: la piega sardonica e ironica del labbro di Mario Tazzoli, grande gallerista della migliore modernità intorno al 1950; e le sopracciglia boscose sulle pupille penetrantissime di Luigi Carluccio, critico e organizzatore incomparabile delle lontane mostre epocali sulle Muse Inquietanti, il Cavaliere Azzurro, il Simbolismo Sacro e Profano...
Davanti a quegli abiti perfetti e a quei Klimt mirabili, in casa, non si ebbe mai cuore di domandargli come mai non applicava lo stesso «occhio» e gusto anche alle macchine Fiat, in queste fasi di insofferenza per il look «impiegatizio» nei prodotti di serie e di massa. Parlando di Caravaggio, invece, gli chiesi come mai si chiamasse «Bourbon Del Monte» (quando i Borboni non erano ancore re di Francia) la vecchia famiglia toscana ed umbra di sua madre, oltre che del cardinale protettore del Merisi. Rispose: «Lo sapeva Pierrà. Lo sapeva Uguccione» (i cugini Bourbon del Monte e Ranieri di Sorbello). «Ma non ci sono più» .
Allora l´ho improvvisamente rivisto indietro, all´alba della Dolce Vita, quando nel Club 84 era ammiratissimo perché l´unico a tenere una intera bottiglia di whisky sul tavolino, e non un bicchiere per volta come gli altri viveurs. Non si usava ancora dire l´«avvocato» (iniziò solo col maggiordomo che rispondeva al telefono agli intimi); e le amiche di vecchia consuetudine lo chiamavano piuttosto «Gianulasch» o «l´uomo delle macchine».
Ma com´era inesausta (e pochissimo italiana) la ricerca non solo di «amuseurs» per l´intrattenimento rapido, ma di informazioni aneddotiche culturali: sapeva gli argomenti delle tesi di laurea di Guido Carli, Bruno Visentini, Francesco Saverio Nitti... (Mentre un amico gentiluomo, come Galvano Lanza, regolava discretamente le mance).
Ecco una ricetta di Stile ben poco italiana: trattare gravemente i temi leggeri, e leggermente i temi gravi. Rimuovere con grazia e decisione gli «scocciatori» verbosi e lagnosi, ed evitare con sprezzatura ogni pomposità o affettazione. (Tipicamente, a qualche intellettuale troppo pieno di sé: buttar là con nonchalance una informazione culturale che non gli era ancora arrivata)... Proprio a queste regole di estetica mondana si deve uno dei maggiori successi personali nell´Italia del Novecento, anche in amore? (E proprio mentre «siamo stati occupati dagli italiani», potrebbe dire un Gadda).

Alberto Arbasino

Alberto Arbasino, nato a Voghera nel 1930 si è laureato in Diritto Internazionale all'Università di Milano, è giornalista, saggista, critico musicale e scrittore di vasta cultura, di forte impegno civile …