Marco D'Eramo: La guerra come dottrina

28 Gennaio 2003
Ospita una scuola materna la settecentesca Villa Oliveto che da un poggio si affaccia sul placido paesaggio di una Val di Chiana che sembra lontanissima dall'operoso alveare di capannoni e fabbrichette pullulanti intorno alla vicina Arezzo. Nulla ti lascia pensare che in questo luogo sereno si aggirino i fantasmi delle più sanguinose tragedie del secolo scorso. Eppure l'attuale scuola materna fu prima, negli anni `30, un centro di addestramento per gli ustascia croati, e poi, durante la seconda guerra mondiale, un campo di concentramento dove furono deportati ebrei libici.
E proprio qui il Centro di documentazione sui campi di concentramento, l'Istituto Gramsci di Roma e il comune di Civitella in Val di Chiana hanno deciso di celebrare in modo originale il giorno della memoria. Leonardo Paggi e gli altri organizzatori hanno raccolto sabato scorso una ventina di esperti e studiosi italiani e americani a discutere per tutta la giornata. Scopo: cercare di tracciare la memoria della guerra a venire. Le tragedie di ieri sono state così evocate alla luce della tragedia di domani, visto che la drammatica domanda a cui i relatori dovevano rispondere era: sembra che d'invadere l'Iraq a George Bush glielo abbia ordinato il medico, ma non si capisce affatto in base a quale diagnosi di quale malattia sia stata emessa quest'inesorabile prescrizione.
Si è ottenuto così il massimo dell'anacronismo e dell'anatropismo, dove i termini alla moda della politologia, come nation-building, si sovrapponevano agli spettri dei fascisti croati, le prospettive di attacchi preventivi acquistavano nuova luce a guardare le minuscole tazze allineate nella toletta per i più piccini, e dietro ai bombardieri Stealth pronti a decollare restava ancora impressa l'orma della shoah.
Il punto da cui i relatori erano invitati a partire è il documento presidenziale sulla National Security Strategy (Nss) reso pubblico quest'estate, con cui l'amministrazione repubblicana ha affermato al mondo il proprio unilateralismo e l'abbandono della strategia della deterrenza, a favore dell'attacco preventivo.
Poiché il dibattito riuniva economisti di fama come Marcello De Cecco, Mario Nuti e Andrea Ginzburg, giuristi come Luigi Ferraioli a Salvatore Senese, politologi e storici come Pietro Gargiulo, Adolfo Pepe, Isidoro Mortellaro, studiosi dell'Europa orientale come Silvio Pons e delle religioni come Renzo Guolo, è inutile riportare il dibattito intervento per intervento, tesi per tesi. Tanto più che le posizioni erano assai variegate, e con strane distorsioni, per cui un intelligente repubblicano americano come David Calleo si è collocato all'estrema sinistra rispetto a un riformista italiano come Federico Romero. Anche per non affliggere il lettore con certi manierismi espressivi, e con piaggerie, come il termine "visionaria" con cui alcuni (John Harper, Mario Del Pero) hanno voluto qualificare con cortigiana scaltrezza la strategia neoconservatrice, dove "visionario" può essere un elogio adulatorio di straordinaria lungimiranza profetica, ma anche un eufemismo per dire "Questi sono pazzi".
A suo tempo la Nss fu definita "una svolta epocale", ma ha ragione De Cecco quando osserva che ormai di svolte epocali ce ne sono una ogni paio d'anni. In effetti, in quel documento si ritrovano temi ed espressioni già presenti nella dottrina Truman. Soprattutto, questo documento riprende pari pari il National Defence Guidance for the 1994-1999 Fiscal Years presentato nel 1992 da Dick Cheney (allora segretario della difesa e oggi vicepresidente degli Stati uniti), documento che era stato redatto insieme a Colin Powell (allora capo di stato maggiore dell'esercito, oggi segretario di stato) e Paul Wolfowitz (allora sottosegretario e oggi vicesegretario alla difesa). Questo documento fu ripresentato con variazioni minime nel 1992, nel 1993 e l'anno scorso (un'analisi della straordinaria somiglianza di questi testi è stata condotta da David Armstrong su Harper's Magazine dello scorso ottobre). Anche in quei documenti erano presenti i temi che caratterizzano la cosiddetta dottrina Bush, in particolare la volontà dichiarata di aumentare spese militari e forza bellica nonostante la fine della guerra fredda, il mantenimento di una schiacciante superiorità tecnologica, la marginalizzazione della Nato e dell'Onu, l'unilateralismo e la dottrina dell'attacco preventivo (che, a sua volta, richiama il first strike - primo colpo - nucleare della guerra fredda).
La "dottrina Bush" si configura allora non come una svolta epocale, ma come la ripetizione ossessiva e paranoica delle stesse idee, qualunque sia la situazione che esse pretendono di affrontare. Lo stesso 11 settembre si presenta allora in una luce diversa. Non più come l'evento "dopo il quale niente sarà più uguale a prima" (never again) quale una ormai insopportabile retorica ce l'ha instancabilmente dipinto, ma come l'occasione - dolorosa sì, ma anche insperata - per portare a termine un vecchio programma politico. In fondo, il "secolo americano" cominciò nel 1898 con l'invasione di Cuba, giustificata in modo assai pretestuoso dall'esplosione della corazzata Maine nel porto dell'Avana.
Nello stesso tempo però la dichiarazione Bush, ma soprattutto l'ormai inevitabile invasione dell'Iraq segnano davvero una svolta, e cioè il passaggio da una fase di "impero informale" (come l'ha definito Chalmers Johnson in Gli ultimi giorni dell'impero) a una vera e propria auto-incoronazione imperiale.
In due sensi gli Usa costituivano un "impero informale". Il primo senso è che i cittadini americani sono stati (e sono) ignari di costituire un impero. Pensano di essere la nazione più ricca e più potente, ma non un impero, e nulla li ha preparati a diventare tali, né a conseguire le doti per gestire un impero, come ha detto David Calleo. Anche all'opinione pubblica internazionale la natura imperiale del potere americano era oscurata dalla guerra fredda. In presenza del nemico sovietico, le basi americane non erano truppe di occupazione ma bastioni difensivi contro le orde cosacche (che mai si sono abbeverate a San Pietro). Gli Usa erano i "paladini del mondo libero" e alimentavano l'ingenua credenza (così definita dallo storico Howard Zinn) per cui Gli Stati uniti pensano di essere "la nazione boy scout che aiuta gli altri paesi del mondo ad attraversare la strada". Ma dopo la fine della guerra fredda ci si può chiedere da chi stiano difendendo l'Italia le decine di basi militari Usa che la costellano, da Napoli alle Puglie, da Aviano a Livorno, dalla Maddalena a Verona: da un'invasione francese, o egiziana, o greca?
Informale era anche quest'impero, dopo il crollo dell'Unione sovietica, perché fautore di quel che alcuni strateghi hanno chiamato soft power, messo in atto dall'amministrazione Clinton e che i repubblicani oggi al potere deridono come "goody-goody", cioè come buonismo: il soft power consiste nel creare le condizioni (economiche, militari, diplomatiche) per cui gli altri paesi siano costretti a fare spontaneamente ciò che vuoi tu senza che tu debba ordinarglielo. Da qui la preferenza democratica di esercitare l'"impero informale" attraverso le cinghie di trasmissione internazionali: Onu, Nato, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale. La "dottrina Bush" - e l'attacco all'Iraq - relega in soffitta l'idea di governare il mondo attraverso intermediari internazionali, e costituisce una dichiarazione di impero: "Io ho il diritto di attaccare chiunque, ovunque, nel momento che mi pare, a mio totale arbitrio". L'impero è legibus solutus, ha detto Salvatore Senese: non ratifica il trattato di Kyoto, processa i criminali di guerra degli altri paesi ma chiede l'immunità per i propri crimini di guerra (fu questa la ragione per cui a Norimberga, tra i crimini di guerra non furono inclusi i bombardamenti delle popolazioni civili inermi, per non mettere sul banco degli imputati i generali americani accanto a quelli tedeschi).
È questo vero e proprio "proclama imperiale" a preoccupare Cina, Russia, Francia e Germania, molto più che l'attacco all'Iraq in sé. Se per scatenare un'invasione basta che non piaccia a Dick Cheney la foggia dei baffi di Saddam Hussein, allora la marcia su Baghdad è solo la prima tappa della "guerra dei trent'anni" che ci è stata promessa (tra parentesi, la Guerra dei trent'anni 1618-1648, fu la più sanguinosa della storia, come percentuale di popolazione uccisa). La prossima tappa potrebbe essere la marcia su Teheran, e non solo. Poiché gli Usa considerano che la sola, vera potenza rivale sarà la Cina, non conviene forse fermarla prima che - attorno al 2020 - il suo peso economico superi quello degli Stati uniti? E perché Parigi dovrebbe sentirsi al sicuro, visti i suoi costanti attriti con Washington sull'Africa in particolare? Se l'impero deve essere mondiale, non possono esservi limiti agli obiettivi su cui intervenire.
Ma come ha scritto Chalmers Johnson, erigere un impero implica costi che crescono esponenzialmente mano mano che l'impero si espande. In primo luogo costi economici. Mantenere più di mille installazioni militari all'estero e combattere una, due o più guerre contemporaneamente, pone il bilancio federale Usa sotto tale sforzo da creare una serie di tensioni internazionali.
Come ha notato Marcello De Cecco, il deficit della bilancia dei pagamenti Usa è ormai strutturale e il paese è mantenuto a galla dall'acquisto di dollari da parte dei paesi che hanno un immane attivo commerciale con gli Stati uniti e che, oltre agli arabi produttori di petrolio (Sauditi, Kuwait, Emirati), sono soprattutto gli esportatori asiatici, Cina, Taiwan, Corea. Uno dei fattori decisivi nella crisi prossima ventura, ha detto perciò De Cecco, sarà il tasso di cambio della valuta cinese. Se Pechino svaluterà lo yuan, altre monete asiatiche svaluteranno, ma gli Usa non permetteranno a Tokyo di riallineare lo yen e questo potrebbe innescare una crisi internazionale.
Ma i costi dell'impero sono anche politici. Da un lato, il flusso di fondi pubblici verso la difesa prosciugherà ogni fonte per le spese sociali accentuando l'approfondirsi delle diseguaglianze Usa, che già sono un baratro, e mettendo in pericolo la stessa coesione interna, ha detto Giorgio Fodor. Dall'altro lato, come ha scritto David Ignatieff in un lungo saggio di tre settimane fa sul New York Times Magazine, si viene a creare negli Stati uniti una vera e propria delega politica alla casta militare. Già oggi la diplomazia Usa è formulata più dal Pentagono che dal Segretariato di stato, più dai proconsoli militari delle basi d'occupazione che dagli ambasciatori sul posto. Come da sempre ripete lo studioso di strategia francese Alain Joxe, "assistiamo a una totale militarizzazione del pensiero politico americano". La soluzione della crisi viene affidata alla sola superiorità militare, con una carenza di azione politica (costruzione delle coalizioni, e "uso del terzo", per usare la bella espressione di Carl Schmitt).
Un esito di tutto ciò è il sostanziale annientamento dell'Onu come camera di compensazione, come "luogo neutro" dove dirimere i conflitti. Luigi Ferrraioli ha notato con forza che - comunque vada - questa crisi segna la fine dell'Onu: se gli Usa attaccheranno da soli, l'Onu sarà marginalizzato e non conterà più nulla; se l'Onu accetterà di seguire gli Usa nell'invasione commetterà un suicidio politico poiché una guerra di aggressione è esplicitamente vietata dallo steso atto fondativo delle Nazioni unite.
Ma quest'approccio moltiplica l'ostilità circostante, mettendo in prospettiva a repentaglio l'intero progetto imperiale. Ecco perché molti dei partecipanti alla giornata di studi hanno espresso dubbi sulla vivibilità a lungo termine di un unilateralismo esasperato.
L'ultima conseguenza della "dottrina Bush" è l'allontanamento tra Usa ed Europa, tanto che alcuni commentatori parlano ormai non più "dell'Occidente", ma "degli Occidenti", al plurale. A tal punto che David Calleo chiede agli europei di crescere come potenza per controbilanciare gli Usa (e, sottinteso, salvarli da Bush). La prima ragione del crescente divario è che gli alleati di un tempo sono ridotti a sudditi di oggi, gerarchizzati come lo erano i vassalli, valvassini e valvassori (il che non può non suscitare scontenti). La seconda ragione, più profonda, è che gli stessi modelli di civiltà si stanno separando sulle due sponde dell'Atlantico. Su temi come pena di morte, regime carcerario, servizio medico nazionale, scuola pubblica, trasporti in comune, pensioni, dopo gli anni dell'euforia liberista e della bolla speculativa, oggi i governi europei cominciano a puntare i piedi, anche per la crisi morale, di legittimità, e finanziaria, che ha colpito il capitalismo americano. Pensate, con i crolli in borsa che ci sono stati, se avessimo seguito le indicazioni Usa di affidare a fondi azionari le nostre pensioni! Persino Tony Blair ha dovuto rinazionalizzare le ferrovie.
Europa e Stati uniti si separano anche perché ognuno ha un'immagine distorta degli altri. Gli Usa ritengono - opinione interiorizzata al 100% da Federico Romero - che l'Europa sottovaluti il rischio terorismo, che sia imbelle, impotente, incapace d'intervenire a casa propria, come avrebbe dimostrato la crisi nei Balcani: l'Europa vuole la sicurezza senza pagarne le spese nel budget militare. Giusto che gli Stati uniti assicurino le truppe d'assalto e l'Europa l'intendenza e il personale di servizio.
Gli europei dal canto loro hanno una visione degli Usa come di un bullo planetario che ostenta a ogni piè sospinto i propri quadricipiti nucleari e i polpacci supersonici. Il pericolo di questa visione è che gli europei siano contagiati dalla malattia che affligge gli americani: un'errata percezione di sé (per gli individui la distanza fra come ti vedi tu e come ti vedono gli altri è una buona misura della tua follia). Gli Stati uniti si vedono infatti come nice guys ("brava gente") e non capiscono come gli altri non li amino. L'arroganza Usa sta spingendo gli europei nella stessa direzione: ad avere un immagine troppo buona di sé, continente garante dello stato sociale, del compromesso pubblico-privato, della soluzione pacifica dei conflitti. Ma se vai in giro per il mondo, non è che gli europei siano amati molto più degli americani. Vai a chiedere in Somalia se gli italiani sono nice guys, o in Costa d'Avorio i francesi sono des mecs bien!
Vi è però almeno un involontario effetto positivo della dottrina Bush, ed è che sta rafforzando l'unità franco-tedesca. Se infatti oggi francesi e tedeschi non stanno più combattendo per la seicentesima volta per un fazzoletto di terra ghiacciata sul Reno, è solo grazie agli Stati uniti. Solo di fronte a questo gorilla da una tonnellata, francesi e tedeschi, da semplici umani di 80 chili, hanno capito che da soli non saranno mai di taglia sufficiente (ne font pas le pois). Senza la spaventosa pressione Usa, non avrebbero potuto essere superati odi e pregiudizi millenari tra boches e "mangiatori di rane". Paradossalmente perciò, l'unilateralismo Usa costituisce da questo punto di vista la spinta propulsiva più forte per un'Europa unita, anche se c'è la quinta colonna di Tony Blair e Silvio Berlusconi.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …