Gianni Riotta: 1998: così fu decisa la fine di Saddam

11 Febbraio 2003
La seconda guerra americana a Saddam Hussein comincia già ai tempi del presidente Bill Clinton. Si affrontavano allora tre diverse posizioni. La prima, retta dallo stesso Clinton, vedeva le priorità strategiche nella riforma della Russia e dell'Europa centrale, nell'apertura della Nato e nel confronto con India e Cina. L'Iraq era roba del passato. La seconda posizione era rappresentata da Al Gore, il vicepresidente che è arrivato a un pugno di voti dalla Casa Bianca, nelle elezioni del 2000. Sostenuto da Madeleine Albright, segretario di Stato, Gore credeva che Saddam Hussein restasse un pericolo, che la guerra di Bush padre fosse fallita e che occorresse rimuovere il tiranno da Bagdad con la forza. Tra i due gruppi mediavano gli specialisti, che volevano un colpo di Stato, coordinato con l'opposizione in esilio.
Quando ci si chiede, "perché l'Amministrazione repubblicana di George W. Bush ha deciso di bombardare adesso il raìs?", occorre partire da quei dibattiti, come ce li racconta Kenneth Pollack, autore del più bel libro sulla guerra a venire The threatening storm , tempesta minacciosa (fra tanta sbobba che si agglutina nelle librerie italiane, nessun editore ha il fegato di tradurre questo formidabile testo?). Pollack, analista per la Cia, avvisò Bush padre che l'Iraq avrebbe invaso il Kuwait.
Non gli credettero. Per anni, come membro del Consiglio per la Sicurezza nazionale di Clinton, spiegò che contro Saddam non servivano né blandizie, né minacce e che il tiranno sopravviveva alle sanzioni e negoziava lucrosi contratti per petrolio e armi con Russia, Cina e Francia, mentre contrabbandava tre miliardi di dollari in greggio con Siria, Turchia, Giordania e Iran. Nessuno ascoltò Cassandra Pollack.
La proposta di invadere l'Iraq ritorna poche ore dopo l'attacco suicida contro New York e Washington, 11 settembre 2001. Il ministro della Difesa Donald Rumsfeld chiede piani di guerra contro Bagdad (lo confermano Bob Woodward sul Washington Post e Chalmers Johnson sul Los Angeles Times ). Non tutti sono persuasi. Il segretario di Stato Colin Powell insiste: "L'opinione pubblica non ci seguirà", la consigliera per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice cita un suo saggio del febbraio 2000, sulla rivista Foreign Affairs : "La prima linea di difesa contro Saddam, anche se acquisisse armi di sterminio di massa, deve essere la deterrenza". George W. Bush decide che "la gente va preparata" e si concentra sul raid contro il regime dei talebani.
Alla situazione di oggi, ispettori a Bagdad, 200.000 soldati Usa sul piede di guerra, Onu mobilitata ed europei divisi, si arriva leggendo quei saggi intellettuali, a tratti fumosi, articoli con le note a piè di pagina che possono portare il mondo sull'orlo di un conflitto. Rumsfeld aveva già scritto una lettera al presidente Clinton, il 28 gennaio del 1998, chiedendogli "di eliminare Saddam Hussein e il suo regime". Clinton fece orecchie da mercante e Rumsfeld invitò Dick Cheney, oggi vicepresidente, a firmare con lui un appello ai leader repubblicani del Congresso. La data è 29 maggio 1998, il testo chiaro: "Occorre cacciare Saddam, stabilire e mantenere una possente presenza militare americana nella regione, pronti a usare la forza per difendere i nostri interessi nel Golfo Persico". Oltre a Rumsfeld e Cheney firmano Bill Kristol, direttore del foglio conservatore Weekly Standard , Elliott Abrams, vecchio falco reaganiano, Paul Wolfowitz, oggi vice di Rumsfeld al Pentagono, John Bolton, oggi sottosegretario alla Difesa, Richard Perle, stratega di Bush al Defense Science Board , Richard Armitage, oggi vice di Colin Powell al Dipartimento di Stato e Zalmay Khalilzad, oggi diplomatico in Afghanistan. Il gruppo si battezza Progetto per un Nuovo Secolo Americano.
L'attacco di Al Qaeda vede gli uomini del Progetto non più sparsi per i centri studio della capitale, ma saldi ai posti di comando dell'America. Il progetto di invadere l'Iraq esce dai cassetti delle loro scrivanie e converte, a malincuore, la Rice. Il manifesto del Progetto per un Nuovo Secolo viene da uno scoop del New York Times , che l'8 marzo del 1992 pubblica un documento segreto redatto da Paul Wolfowitz. La tesi è lineare: l'America deve restare unica superpotenza, Russia e Cina sono minacce e non partner, "occorre mantenere una macchina militare così potente da evitare rivalità locali o globali", impedendo all'Europa una sua potenza militare e diplomatica, suturando con la forza il proliferare di armi nucleari, chimiche o biologiche in Iraq e Corea del Nord.
L'ascesa alla Casa Bianca di Clinton rimette in archivio le tesi di Cheney, Rumsfeld e dell'iperattivo Wolfowitz (per rilassarsi scende lungo le rapide con un suo kayak, perfezionando "la rotazione all'eschimese"). La vittoria di Bush nel 2000 rilancia il Progetto. Sale così la stella di Douglas Feith, il diplomatico che aveva provato a persuadere in Israele il primo ministro Beniamin Netaniahu a rompere con il trattato di Oslo. Al Pentagono arriva J.D. Crouch, che nel 1995 aveva proposto di bombardare gli impianti nucleari e militari in Corea del Nord. E al Dipartimento di Stato, dove già opera Armitage, Cheney raccomanda John Bolton, intellettuale persuaso che "le Nazioni Unite non contano... la comunità internazionale deve essere diretta dal solo potere che esista al mondo, gli Stati Uniti, secondo i nostri interessi a cui gli altri possono allinearsi".
L'unilateralismo, l'insofferenza per l'Europa, la diffidenza per Russia e Cina, la voglia di attaccare da soli, non sono dunque una sorpresa per chi ha la pazienza di studiare il codice genetico dell'Amministrazione. Stephen Cambone, il vice di Wolfowitz al Pentagono, considera "Russia e Cina incerte, non sappiamo se saranno amiche, neutrali o nemiche". La filosofia del mondo è mutata.
Ai tempi di Bush padre e Clinton, lo studioso Francis Fukuyama scriveva di "fine della storia", era di trionfo per le tesi liberali. Rumsfeld teme invece "il futuro, l'incerto, l'oscuro, l'inaspettato" in un articolo su Foreign Affairs del 2002, un mondo alla Hobbes, dove il lupo più forte prevarrà. John Lewis Gaddis, storico alla Yale University, contrappone le due tesi in un saggio su Foreign Policy . Obiettivo di Clinton era "Assicurare la sicurezza americana. Spronare la prosperità economica. Promuovere la democrazia e i diritti umani ovunque". Bush propone invece di "Difendere la pace combattendo terroristi e tiranni. Preservare la pace creando buone relazioni con le grandi potenze. Estendere la pace incoraggiando le società libere e aperte in tutti i continenti".
Per Clinton il pianeta era in progresso e la collaborazione internazionale scontata. Bush vede il mondo come un'arena di combattimento, in cui la collaborazione internazionale va sempre negoziata. A Nicholas Lemann del New Yorker Douglas Feith spiega che occorre invadere l'Iraq per togliere l'acqua ai terroristi, in modo che "gli altri Stati decidano che non è il caso, dopo Kabul e Bagdad di ospitare clandestini". E Stephen Cambone annota: Saddam ricatta Siria e Giordania con il petrolio, dando una mano ai palestinesi. Se il rubinetto del petrolio iracheno non sarà più custodito da Saddam Hussein ma da un regime filoamericano, siriani, giordani e palestinesi ascolteranno Washington.
John Bolton ha chiamato a lavorare con sé David Wurmser, autore del volume "L'alleato del tiranno: perché l'America non sa sconfiggere Saddam Hussein". Wurmser faceva parte del team di Feith come spalla del Likud in Israele. Oggi vuole sconfiggere il nazionalismo panarabo di Iraq e Siria. Il domino di Wurmser procede così: caduto Saddam si destabilizzano Siria e Iran, perché crolla il nazionalismo e le minoranze sciite non rispetteranno più l'egemonia di Teheran. Gli Usa godranno di Paesi amici, il nuovo Iraq, la Turchia, la Giordania e Israele e potranno eliminare le minacce terroristiche di Hamas, Jihad islamica e Hezbollah. I palestinesi dovranno eleggere un leader moderato al posto di Yasser Arafat e l'Arabia Saudita, conscia che il petrolio non ricatta più Washington, liquiderà i legami con Al Qaeda.
Vi pare meccanico? Lo è secondo Gaddis: "La verità è che nessuno sa se la strategia di Bush in Iraq funzionerà... dipende da come saremo accolti a Bagdad, se ci applaudono o se ci sparano addosso, se finisce come a Kabul o come alla Baia dei Porci", quando i mercenari cubani di John Kennedy furono sgominati dalle milizie di Fidel Castro. "In guerra - diceva il Clausewitz - l'unica certezza è l'incertezza", ma i diplomatici del Progetto non hanno incertezze. Non si curano della legittimità morale del loro blitz, sono certi di crearsela quando la Cnn manderà in onda le folle festanti di iracheni. Allora i critici dovranno tacere. Se non ci saranno gli applausi però la loro strategia è a rischio, rischio tragico.
Dalla Dichiarazione di Indipendenza al presidente Wilson, gli Stati Uniti hanno a cuore la legittimità morale della loro politica estera.
Gli uomini del Progetto per un Nuovo Secolo sono persuasi di illustrarla a posteriori. Non attaccano la Corea del Nord perché sanno che può bombardare Seul. Sulla sconfitta di Saddam sperano di innescare un nuovo Medio Oriente. Non si considerano dei cinici e sono fieri della loro visione del mondo. Non credono di far la guerra per il petrolio, ma perché la democrazia americana e non un tiranno, controlli il petrolio e se gli europei non hanno una difesa e una diplomazia comuni peggio per loro. Vogliono "rendere il mondo sicuro per la democrazia". I loro critici, come Anthony Lewis della New York Review of Books , li considerano "utopisti, la razza più pericolosa al mondo". Tra pochi giorni sapremo chi ha ragione.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …