Gianni Riotta: La tragedia e i simboli

03 Febbraio 2003
Povera America. In un tranquillo sabato d’inverno, l'ultima superpotenza deve nuovamente piangere i suoi astronauti perduti, personaggi che ormai nulla hanno più di eroico, due righe appena quando il loro Shuttle decolla, una vita da mediano nello spazio, la gloria, la fama, l'orgoglio ritrovati solo davanti alla morte.
Quando il primo Shuttle scoppiò, il 28 gennaio del 1986, uccidendo i sei membri dell’equipaggio e la brava maestrina McAuliffe, il presidente Ronald Reagan disse: "Andremo avanti, il futuro è dei coraggiosi, non dei codardi". C’era allora la guerra fredda, oggi c’è la guerra al terrorismo e siamo all’alba dell’attacco a Saddam Hussein. L’inchiesta sulla strage dello Shuttle fu risolta, in diretta, dal geniale fisico Richard Feynman: immerse gli anelli di una guarnizione nell’acqua ghiacciata, li deformò, sbugiardando gli esperti. Il freddo, inconsueto in Florida, aveva causato l’incidente. Un classico del folklore americano, il genio iconoclasta e felice che smaschera i potenti burocrati, come in una vecchia pellicola di Frank Capra. La giustizia, la verità e la tecnologia, il Dna di una nazione.
Quando tante delle virtù d’America sembrano perdute al mondo, quando essere "antiamericani" va di moda dai caffè snob di Parigi, alle enclaves codine di Roma, alle piazze roventi del Medio Oriente, alle Università latinoamericane, la tecnologia sola sembrava salvarsi di un mito incerto. Ancora ieri, il magnate del software Bill Gates diceva: "L’Europa consuma tecnologia progettata negli Usa". E invece lo Shuttle Columbia, il più antico, veterano di 28 missioni, battezzato con il nome dell’eroe che ha svelato la via verso l’America, Cristoforo Colombo, finisce in mille pezzi che la Nasa prega di non esibire a mo' di souvenir nel soggiorno di casa.
Come in una nemesi epica, le schegge bombardano il Texas, lo Stato del presidente George W. Bush, mentre il suo vicepresidente, il bellicoso Dick Cheney, è da quelle parti a caccia. E la navicella spaziale che aveva a bordo il primo astronauta israeliano, l’asso dell’aviazione Ilan Ramon, si disintegra a 63 chilometri d’altezza, a 20 mila chilometri l’ora di velocità, colpendo un villaggio minuto come un presepe, che si chiama Palestine. Ramon era popolare nel suo Paese per le imprese di guerra e stavolta voleva rappresentarlo in una missione di pace. Aveva con sé, a bordo, il disegno di una Luna, tracciato da un bambino ebreo travolto dall’Olocausto. Sessanta anni fa i nazisti non riuscirono a bruciarlo, il Fato l’ha raggiunto ieri. Neppure nel gioco assurdo dei simboli, ebrei e palestinesi riescono a godere di una pace effimera. Yasser Arafat ha telegrafato dal suo esilio in patria le condoglianze ai familiari delle vittime. Povero Israele, povera Palestina.
L’inchiesta sul Columbia non sarà condotta da un fisico elegante, ma dal ministro per la Sicurezza Tom Ridge. Non è un attentato, nessun missile terra-aria sa colpire a quell’altezza e velocità, ma la legge Usa, dopo l’11 settembre 2001, obbliga lo zar antiterrorismo a indagare per primo. Viviamo in tempi così amari, che anche un incidente tragico solleva sospetti e richiede perquisizioni, tempi in cui non è improbabile che qualche sciagurato brindi, o sogghigni , davanti alla strage del Columbia e alla sua misteriosa epifania di icone. Bush è apparso in tv tirato, stanco, invecchiato. La prossima volta che andrà sugli schermi rivolgendosi alla nazione sarà forse per dichiarare guerra all’Iraq. Povera America, viene da dire, povero Israele, povera Palestina, poveri iracheni, poveri i sette dello Shuttle e poveri tutti noi, indigeni del 2003.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …