Gian Carlo Caselli: Gli scritti di Moro che le Br non capirono

31 Marzo 2003
Molto si è doverosamente scritto - in questi giorni - del sequestro dell'onorevole Aldo Moro e del massacro degli uomini che lo scortavano. Qui vorrei ricordare un altro fatto, anch'esso di 25 anni fa, che nella storia delle "Brigate rosse" ebbe conseguenze decisive. Mi riferisco al processo ai "capi storici" delle Br, quasi tutti arrestati nel 1974-75 (Curcio, Franceschini, Ferrari, Gallinari, Buonavita, Bassi, Bertolazzi, Ognibene, Paroli, Lintrami, Moretti, Micaletto...), conclusosi a Torino nel 1978, dopo una serie di delitti che l'avevano crudelmente cadenzato con una criminale scia di sangue. Questo processo era in corso proprio quando avvenne il sequestro Moro. Ed era un processo che le Br non volevano assolutamente che si facesse. La lotta armata - dicevano - non si processa. La rivoluzione non si condanna. Poiché il terrorismo è propaganda e proclami che devono necessariamente tradursi in "cifra operativa", cioè in attentati e violenza, ecco - nel 1976 - l'omicidio degli uomini di scorta, Saponara e Dejana, e del Procuratore generale Coco, che si era duramente contrapposto alle Br all'epoca del sequestro Sossi. Il processo di Torino si era appena avviato dinanzi alla Corte d'Assise presieduta da Guido Barbaro. Quell'omicidio (il primo voluto dalle Br) ebbe un impatto tremendo sull'opinione pubblica e di fatto costrinse a far slittare di un anno il processo di Torino. Nel 1977 si provò a riprenderlo. Questa volta le Br uccisero il Presidente degli Avvocati di Torino, Fulvio Croce, "colpevole" di leale e coraggioso adempimento dei suoi doveri istituzionali: assicurare la difesa d'ufficio a chi non voleva essere né processato né difeso (in uno Stato democratico non c'è processo senza difesa, e l'avv. Croce stava "semplicemente" rispettando questo fondamentale principio). Con l'omicidio Croce le Br riuscirono a terrorizzare l'intera città di Torino: non si trovarono sei (sei!) cittadini disposti a fare i giudici popolari. Sul tavolo del presidente Barbaro ad ogni estrazione di giurato arrivava un certificato medico con la scritta "sindrome depressiva" (traduzione in termini clinici della paura?).
L'impossibilità di formare la giuria della Corte d'Assise costrinse a rinviare nuovamente il processo di un anno. Alla sua ripresa - il 9 marzo 1978 - le Br, con l'uccisione del maresciallo Berardi (che aveva fatto parte del disciolto nucleo antiterrorismo della Polizia), dimostrarono fin dal primo giorno che il loro obiettivo di bloccarlo ad ogni costo non era cambiato. Ci provarono fino all'ultimo, ammazzando il commissario Esposito (altro poliziotto dell'antiterrorismo) proprio nel momento in cui la Corte d'Assise si ritirava in camera di consiglio. Nel corso del processo furono commessi a Torino gravi attentati (l'omicidio dell'agente carcerario Cotugno; i ferimenti dell'ex sindaco Picco, del caporeparto Fiat Palmieri, dell'agente Digos De Martini, dei medici Ghio e Ferrero). Massiccia fu - nelle fabbriche torinesi - la diffusione dei "comunicati" Br relativi al sequestro Moro. In cambio della liberazione di questi, con il comunicato n. 3 venne pretesa la scarcerazione di vari brigatisti detenuti, alcuni dei quali erano alla sbarra proprio a Torino. Sull'Assise di Torino, dunque, le Br scaricarono un volume di fuoco, intimidazioni e minacce di impressionante ferocia. E tuttavia il processo si svolse - per unanime riconoscimento - nel pieno rispetto delle regole e dell'identità politica degli imputati, ammessi persino a controinterrogare le loro vittime, in particolare il giudice Sossi (e la cosa non da tutti, all'inizio, fu compresa come scelta di intelligente lungimiranza: molti non andarono al di là dell'apparenza ed ipotizzarono un certo "lassismo"). Alla fine si ebbero giuste e severe condanne, che per le Br rappresentarono una sconfitta devastante. Lo Stato - rappresentato dalla Corte d'Assise presieduta da Guido Barbaro - nonostante il fiume di sangue versato per fiaccarne la resistenza, non aveva ceduto al ricatto terroristico. L'assunto che la lotta armata non si processa si rivelava un vaneggiamento. Col fallimento politico del processo si intrecciò quello del sequestro Moro. Gli sforzi delle Br per ottenere un riconoscimento "ufficiale" - come soggetto "alternativo" allo Stato - non ottennero alcun risultato. La mobilitazione degli altri gruppi armati, che avrebbe dovuto scatenare una pre-guerra civile, si rivelò un miraggio. I documenti che Moro aveva scritto durante la sua prigionia (dando prova di rara intelligenza e lucidità, nonostante il dominio esercitato su di lui dai suoi carnefici) le Br non seppero né capirli né sfruttarli, neppure quando contenevano rivelazioni di fatti e riferimenti a uomini politici che - nella loro ottica delinquenziale di propaganda sovversiva e divisione del fronte politico istituzionale - avrebbero potuto scatenare reazioni dirompenti.
Cominciò di qui - da questi due fallimenti - la crisi irreversibile delle Br che in un paio d'anni portò al crollo verticale dell'organizzazione. A questo risultato concorsero altri fattori (il vuoto creato intorno ai terroristi dalle decise mobilitazioni di tutte le forze politiche, sindacali e culturali: anche quelle che in passato avevano mostrato ambiguità ed incertezze; - il recupero di efficienza nelle investigazioni, mediante il ripristino dei Nuclei speciali antiterrorismo; - la prospettiva di benefici per i collaboratori, introdotta col decreto Cossiga sui sequestri di persona). Ma certamente la conclusione del processo di Torino e l'esito politico del sequestro Moro ebbero un ruolo centrale. Se la democrazia è sopravvissuta, lo dobbiamo anche a questo: pur nel dolore per tante, terribili tragedie umane. Procuratore Generale a Torino

Gian Carlo Caselli

Gian Carlo Caselli (Alessandria, 1939) è stato giudice istruttore a Torino dove, per un decennio, ha condotto le inchieste sulle Brigate rosse e Prima linea. Dal 1993 al 1999 ha …