Felicità: istruzioni per l'uso

09 Aprile 2003
Tanto cibo da soffrire di obesità. Tante automobili da saturare l'aria. Tante merci da non avere il tempo di comprarle tutte. Cose da fare, vedere, provare. Eppure, non siamo felici. E quanto più l'economia è bulimica, più cresce il senso di malessere. Insomma: non è la ricchezza a far felice una società. E il sistema finora adottato dagli economisti, cioè calcolare il livello di felicità di una società in base al suo prodotto interno lordo, è sbagliato. O perlomeno, molto parziale. A dirlo, oggi, è un gruppo internazionale di studiosi. Che, in fondo, sta cercando di rendere l'economia, e i popoli, meno tristi. Perché "l'economia ha perso gioia", secondo l'economista ungherese Tibor Scitovsky. E la ragione è aver affidato la chiave del benessere unicamente al reddito, trascurando fattori come la sicurezza sociale, i rapporti umani, la cultura, il tempo libero. Un errore di valutazione: comodità e benessere, scambiati per felicità, non bastano più. Servono misure alternative al reddito per valutare la felicità pubblica. E per favorirla.
A promuovere l'idea è oggi Richard Layard della London School of Economics, che con un ciclo di seminari in Gran Bretagna sta animando il dibattito sull'happiness (su Internet, all'indirizzo: http://cep.lse.ac.uk, il sito del Center for economic performance). "La felicità sociale ha sette componenti: lo stipendio, il lavoro, la vita privata, le relazioni sociali, la salute, la libertà, una filosofia di vita che includa valori morali", sostiene: "Sono questi i parametri che influenzano la felicità. E su questi occorre agire per avere società più felici". Perché senza fiducia nelle istituzioni, quando le disparità economiche sono così gravi da alimentare inquietudini sociali, senza sistemi sanitari e d'istruzione adeguati, una società non può essere contenta.
Ma la cura alla malinconia sociale funziona a patto che siano soddisfatti i bisogni di base. Perché è dimostrato che la gente con stipendi bassi diventa significativamente più felice quando comincia a guadagnare di più. L'esigenza di parametri diversi dal denaro scatta solo quando si è raggiunto un reddito minimo. E gli esperti hanno individuato la cifra esatta: un valore di 15 mila euro. Vale per gli individui e per le società: solo quando una nazione è diventata autosufficiente e con un certo grado di sviluppo economico comincia ad avvertire l'importanza di fattori più sofisticati. Allora, per tutti, scatta il paradosso: essere ricchi ma non felici.
"L'economia è sempre stata costruita intorno al concetto di felicità pubblica. Ed è, oltretutto, un filone di pensiero tipicamente italiano. L'idea, però, si era persa per strada con l'introduzione delle teorie sull'utilitarismo: da quel momento, la felicità è stata intesa come rapporto tra le persone e i beni", spiega Luigino Bruni, che insegna Storia del pensiero economico alla Bocconi di Milano.
Oggi si torna invece a parlare di felicità in economia: escono riviste specializzate, come il "Journal of happiness studies" e libri. Ma soprattutto sono sempre più numerosi i teorici che, sotto diversi profili, indagano questo legame rivoluzionario: dallo svizzero Bruno Frey, che identifica la felicità nella possibilità di partecipare alla vita democratica attraverso le istituzioni di un paese, a Stefano Zamagni, impegnato sul "matrimonio", impossibile, tra felicità e individualismo. Perché, sostiene, non si può essere felici da soli. Alcuni dicono che invece di ricorrere al Pil dovremmo utilizzare, per capire quanto siamo davvero appagati, un altro indice: il Genuine Progress Indicator, cioè il "reale indicatore di progresso" (in rete: www.redefiningprogress.org/projects/gpi). Un parametro sofisticato: per esempio, attribuisce un "più" al volontariato, un "meno" all'eccesso di lavoro straordinario, che ruba tempo libero e dunque felicità. Qualcuno ripesca la "piramide del benessere umano" ideata negli anni '40 dallo psicologo Abraham Maslow, che stabiliva una gerarchia dei bisogni: in alto l'autorealizzazione e il riconoscimento delle capacità individuali, in basso i bisogni fondamentali come il cibo, l'acqua, un tetto sulla testa.
"Porsi l'obiettivo della felicità amplia le prospettive consuete degli economisti. Non a caso questo tipo di ragionamento è stato introdotto dagli psicologi, che parlano di "subjective well-being", cioè di valutazione soggettiva del benessere", spiega Pier Luigi Porta, direttore del Dipartimento di Economia all'Università Bicocca di Milano e promotore, dal 21 al 23 marzo, della conferenza internazionale "I paradossi della felicità in economia" (http://dipeco.economia.unimib.it/happiness/). "A questo punto psicologi ed economisti stanno lavorando insieme per elaborare una misura oggettiva della felicità, dei parametri nuovi che guardino non solo al mondo della produzione, ma anche alla qualità della vita". Daniel Kahneman, psicologo e Nobel per l'Economia nel 2002, è già sul punto di dimostrare che esistono. E che possiamo misurarli.
"Quando si arriverà a misurare la felicità oggettiva degli individui basterà mettere insieme i dati per scoprire cos'è che fa felice un paese", sostiene Porta. Cioè: la felicità di una nazione sarà la somma di tutto ciò che fa contenti i singoli. E questa fotografia potrebbe addirittura portare a ripensare il Welfare e a incidere sulle politiche economiche.
Richard Layard, nel frattempo, un peso specifico ai pilastri della felicità l'ha già attribuito: la felicità aumenta in condizioni di libertà, quando si ha un credo religioso, se c'è fiducia nelle istituzioni e se in un paese ci sono valori forti. Diminuisce, invece, quando sono tanti i divorzi e le separazioni, se ci sono problemi di salute e servizi sanitari deboli, se il lavoro è poco sicuro. E qui mette seriamente in crisi il moderno mito della flessibilità: che non dà serenità, ma al contrario provoca insicurezza e impedisce di fare progetti.
Questo è uno dei risultati più sorprendenti delle nuove teorie: il lavoro, purché stabile, è indispensabile alla nostra felicità. "È certamente una potente forma di autorealizzazione. È dimostrato, infatti, che una persona che non lavora, ma riceve ugualmente un compenso, è meno felice di una che invece quei soldi li guadagna grazie al suo lavoro. La flessibilità in termini macroeconomici può aver prodotto dei vantaggi, ma negli individui ha creato insicurezza. Per essere felici, contano sempre di più le relazioni sociali", aggiunge Porta. Si torna al punto fondamentale: non è la quantità di cose che ognuno di noi ha che rende felici, ma la possibilità di condividerle.
Ma questa è economia o filosofia? Qualcosa di nuovo, che in sostanza le avvicina. "La felicità si definisce nel rapporto con gli altri. È armonia tra le cose, è un sentimento di accordo col mondo: lo sapeva già Aristotele", conferma infatti il filosofo Salvatore Natoli, che al tema ha dedicato molti libri, tra i quali "La felicità. Saggio di teoria degli affetti".
"Anche il rapporto con le cose deve servire per sentirci in relazione col mondo. Avere libertà, contare su un lavoro sicuro, poterlo cambiare, ma solo per una migliore realizzazione, avere la possibilità di dibattere di valori morali: questi sono tutti elementi che compongono la felicità. L'economia, perciò, deve essere ripensata in termini di utilità generale", aggiunge Natoli: "Oggi viviamo in una società di cambiamenti continui. È necessaria una nuova logica economica che sia in grado di sanare i grandi squilibri sociali, portatori di infelicità; che non ricorra a cancelli e zone blindate per garantire sicurezza; che sappia valorizzare il tempo e impostare relazioni più giuste con la natura e con gli altri".
E gli italiani si dicono d'accordo. Il tempo (da dedicare a se stessi, alle proprie passioni, alla famiglia e agli amici) e il calore delle relazioni sono indicati, in una indagine sul rapporto tra lusso e felicità appena realizzata dall'agenzia pubblicitaria McCann-Erickson, come i nuovi generi di lusso. Beni immateriali: come fare il lavoro che piace veramente o la possibilità di sviluppare spiritualità e intimismo. Perché gli status symbol del passato non influiscono più sulla soddisfazione e sulla felicità complessiva.
"Metà degli italiani può definirsi "lusso-indipendente", perché ha capito che sono preferibili i valori alle cose. Mi sembra che in questo ci sia il segnale di un recupero di buon senso, che la voglia di "cocooning" degli anni '90 aveva intuito: ritornare nel bozzolo, tra gli ambienti familiari e tra relazioni e valori forti", commenta Milka Pogliani, direttore creativo e vicepresidente di McCann-Erickson. Ma accanto a loro, restano i "lusso-centrici", anche se in declino: sono i ricchi di famiglia inclini a differenziarsi dalla massa; gli ex ricchi nostalgici dei loro "regni"; i nouveaux riches inclini a mettere in mostra la loro fresca ricchezza; infine i "wannabes", concentrati sull'accumulo (i "vorrei-ma-non posso").
"È vero: resiste un'élite che insegue una ricchezza ampia e visibile", dice Pogliani: "E che però di questo un po' si vergogna, e allora camuffa i suoi desideri sfacciati per esempio nel lusso-vintage. O nell'affitto, nella condivisione di servizi e nella ricerca di cose uniche e su misura. Sono quelli che spendono volentieri per cose immateriali come il benessere psicofisico, per quello che noi abbiamo definito "lusso etico": come le vacanze colte o lo slow food". Ma restano atteggiamenti snobistici. Col tempo, in questo clima generale di precarietà, verranno smascherati. Costringendo al recupero di valori più autentici.

La felicità di Salvatore Natoli

La felicità – si dice comunemente – è fatta di attimi. Essa transita, non la si possiede. Ammesso che questo sia vero, la felicità si possiede però quanto basta per poter affermare che esiste. E poi, è proprio vero che gli uomini sono felici nell'attimo, o la felicità, in senso stretto, si può pred…