Marco D'Eramo: Uno specchio Usa e l'Europa è bella

29 Aprile 2003
La sindrome americana colpisce l'Europa, mi veniva da pensare durante l'interessante pomeriggio di discussione sull'Iraq organizzato prima delle vacanze di Pasqua dall'American University of Rome (Aur) in un locale parrocchiale (sala Pio X) dove hanno parlato diplomatici e giornalisti di tre continenti: bizzarrerie della globalizzazione. La sindrome Usa è che gli americani si sentono nice guys (bravi, simpatici ragazzi) e non riescono a capacitarsi come mai il resto del mondo non li trovi affatto nice. Ora succede che anche noi europei cominciamo a sentirci nice guys quando ci guardiamo nello specchio americano: ci riflettiamo in una società statunitense che va pazza per la pena di morte, che ha sette volte più carcerati dell'Europa, non garantisce le vaccinazioni gratuite ai bambini, lascia 42 milioni di cittadini inermi di fronte alla malattia e alla morte, mentre spende per le armi quanto il resto del mondo messo insieme e decide quando le pare e come le pare chi bombardare, invadere e occupare, infischiandosene del parere del resto del mondo.
Di fronte a questo spettacolo, ecco la "vecchia Europa" assurgere a campione di umanità, paladina dello stato sociale, dei servizi pubblici, della cooperazione internazionale, dell'ordine di diritto, della sensibilità ecologica. L'Europa è fautrice della Corte Penale Internazionale? Gli Stati uniti chiedono l'immunità per sé stessi. L'Europa firma il trattato di Kyoto per ridurre le emissioni nocive? Gli Usa ne fanno carta straccia. L'Europa chiede che la convenzione di Ginevra sia rispettata? Gli Usa offrono in prima visione i detenuti incappucciati e incatenati di Guantanamo. Se continua così, noi europei "finiremo col pensare di essere i boy scouts che aiutano i vari paesi del pianeta ad attraversare la strada" (Howard Zinn: solo che lo storico americano questa frase l'ha scritta riferendola agli statunitensi, non agli europei).
A forza di guardarsi negli Stati uniti, la vecchia Europa si sente uno schianto. D'altronde, se prendiamo per buona l'idea un po' machista e volgarotta di Robert Kagan: "Americans are from Mars and Europeans are from Venus" (tradotto in italiano: "noi abbiamo le palle e voi siete femminucce"), non c'è dubbio che Venere è molto più affascinante di Marte (tanto che nella mitologia alla fine lo seduce e lo doma). Come non v'è dubbio che, se proprio dovessimo scegliere, preferiremmo vivere "in un mondo autoregolato da leggi e regole e da negoziati e cooperazione internazionale, [che] entra in un paradiso post-storico di pace e relativa prosperità, la realizzazione della kantiana "pace perpetua"" in cui secondo Kagan vivrebbe l'Europa, piuttosto che "nell'anarchico mondo hobbesiano in cui le leggi internazionali e le regole sono inaffidabili e in cui la vera sicurezza e la difesa e promozione dell'ordine liberale dipende ancora dal possesso e dall'uso della potenza militare" in cui, sempre secondo il teorico della destra ultra-conservatrice Usa, agirebbero gli Stati uniti: Kagan dovrebbe ricordare che nel mondo hobbesiano "la vita dell'uomo è solitaria, povera, lurida, brutale e corta" (Leviatano, parte prima, cap. 13).
Questo autocompiacimento da europeo buono mi coglieva mentre nella sala Pio X ascoltavo i diplomatici tedesco e francese (Cristian Schlager, addetto stampa dell'ambasciata tedesca a Roma e Marc Fonbaustier, consigliere politico dell'ambasciata francese a Roma) spiegare - e difendere - sulla base del diritto internazionale, e dei regolamenti Onu le posizioni dei loro governi durante la crisi irachena. A contrario, questa contentezza di sé era confermata dal consigliere politico dell'Ambasciata americana, Tom Countryman: con la sua tagliente aggressività, il suo intervento forniva a colpi di randellate verbali un'interpretazione assai originale del concetto di "tatto diplomatico", e pareva voler confermare l'immagine stereotipata del funzionario Usa descritto nei film di Costa Gavras.
Fin qui la prima componente della sindrome americana, il sentirsi nice guys. Ma per poter affermare che l'Europa è stata colpita dalla stessa malattia, bisogna verificare anche l'altra metà della sindrome, e cioè che il resto del mondo non condivide affatto l'idea elogiativa che abbiamo di noi stessi, non ci trova per niente nice. A questo scopo basta solo viaggiare. Nessuno in Costa d'Avorio, né in Ruanda né in Burundi, trova che i francesi sono "carini". Quanto all'idea che gli italiani siano "brava gente", basta chiedere a eritrei, somali, etiopici e libici (o leggersi i libri di Del Boca sull'italico colonialismo). Oppure vai a chiedere ai polacchi se sono proprio tranquilli di vedere Germania (a ovest) e Russia (a est) mettersi d'accordo: d'altronde, se un paese europeo era giustificato nel buttarsi nelle braccia del Pentagono, era proprio la Polonia, visti i suoi non esilaranti ricordi delle passate convergenze russo-tedesche.
Oppure basterebbe dedicarsi all'esercizio opposto, mettersi nei panni di americani che si guardano nello specchio dell'Europa. Un primo scorcio lo si aveva nella parrocchia romana: lì il seminario era programmato dalle 17 alle 20, composto di tre panels con quattro oratori l'uno, oltre al dibattito col pubblico. Tutto è andato come previsto, con uno sforamento di solo mezz'ora. Immaginate in Italia 12 oratori che si succedono in tre ore e che si limitano ognuno ai 10 minuti assegnati, lasciando anche il tempo per la discussione! Immaginate al contrario un americano che, dall'alto di questa veloce, dinamica concisione, assiste a un logorroico dibattito europeo dove ognuno fa a gara a chi parla più a lungo e che, per strappargli il microfono, bisognerebbe chiamare i marines. Nello specchio europeo, gli americani avrebbero ben ragione di considerarsi - la parola è grossa ma giustificata - "più educati", più rispettosi degli altri, del pubblico e degli altri oratori. E, nel caso particolare della discussione promossa dall'Aur, anche più pluralisti, visto che avevano invitato l'Istituto di studi strategici (Ssi), i diplomatici di quattro potenze (Germania, Francia, Regno unito, Usa), un esponente dell'Onu, giornalisti (uno polacco, uno del manifesto e uno cattolico).
Potrebbero sembrare aspetti marginali (anche se non lo sono), ma c'è un tema grande come una casa su cui - nel gioco degli specchi reciproci - gli Stati uniti sono davvero i più belli del reame, ed è il tema dell'immigrazione. Vista da fuori, rispetto ai migranti l'Europa appare un continente micragnoso, fifone, asserragliato, pronto a far (letteralmente) naufragare ogni speranza e a far annegare i profughi; un continente che si dota di campi di deportazione, che pattuglia i propri mari con cannoniere, che pronuncia "asylum seekers" come una parolaccia o una malattia contagiosa. Un continente che in Spagna, Italia, Olanda e Francia ha mandato al potere governi velatamente o apertamente xenofobi. Una terra - per dirla tutta - inospitale. Al confronto, negli ultimi 20 anni, gli Stati uniti hanno accolto 30 milioni di immigrati: come se si fosse trasferito una nazione intera grande come la Polonia. Gli Stati uniti hanno 8 milioni di clandestini e nessuno lancia contro di loro oscene campagne "sicuritarie" (osceno termine della politica francese). Anzi, i media americani intonano inni continui all'insostituibile, prezioso contributo degli immigrati alla crescita economica Usa. Persino una tragedia come l'11 settembre 2001 non è riuscita a invertire la tendenza. Da noi hanno deciso di prendere le impronte digitali agli immigrati, in America non riescono neanche a varare un documento d'identità valido in tutti gli Usa (anzi, oggi si discute se dare la patente ai clandestini). Davvero, rispetto all'Europa, gli Stati uniti diventano una terra più aperta e più ospitale.
Dovremmo perciò andarci cauti con l'autosoddisfazione. Bisogna sempre diffidare dell'autocompiacimento, soprattutto quando ci troviamo in una situazione del tutto inedita, come quella attuale. In rete gira la seguente battuta: "Il più grande rapper del mondo è bianco [Eminem]; il più grande giocatore di golf è nero [Tiger Woods]; la più importante competizione di vela oceanica [America's Cup] è vinta dalla Svizzera; i francesi dicono che gli americani sono arroganti; e i tedeschi sono pacifisti". Insomma, un mondo alla rovescia. Che ci ricorda dell'epoca non lontana, quando i rapper erano neri, i golfer bianchi, gli svizzeri montanari, i francesi arroganti e i tedeschi militaristi. Dovrebbe venirci il sospetto che l'Europa si comporti come ha fatto nei secoli la Chiesa cattolica: quando era in maggioranza imponeva roghi ed Inquisizione; quando era minoritaria, predicava tolleranza religiosa e libertà di culto (ed è interessante che oggi la "vecchia Europa" e la Chiesa abbiano adottato la stessa posizione). Così quando era la prima potenza mondiale, l'Europa costringeva la Cina a drogarsi (guerre dell'oppio), praticava il genocidio coloniale (Leopoldo II del Belgio in Congo) e praticava la politica delle cannoniere: quando ha perso la superiorità militare, auspica il regno del diritto internazionale, la legittimità dell'Onu, il multilateralismo. Contro la sindrome da nice guys andrebbe quindi prescritta una intensa terapia a base di diffidenza verso i propri buoni sentimenti. Anche in questo caso vige la ricetta cartesiana: dubbio metodico e ancora dubbio metodico. Dovremmo cominciare a chiederci se le Nazioni unite non sono davvero la "Santa alleanza" dei nostri giorni, come sostiene Perry Anderson. Se ci fa sentire davvero a nostro agio trovarci come leader politici della nostra opposizione alla guerra in Iraq un vecchio trombone della destra gollista come Jacques Chirac e un pontefice legato all'Opus Dei come Karol Woytjla.
D'altronde, nessuno si è interrogato sul perché il Papa si è scatenato contro questa guerra con una veemenza inedita. Né la prima guerra del Golfo, né le guerre ex-yugoslave, né le guerre africane (solo in Congo, negli ultimi quattro anni e mezzo di guerra hanno perso la vita 3,3 milioni di persone) hanno suscitato una tale opposizione pontificia. C'è quindi un movente che va oltre il generico pacifismo, il dolore per la perdita di vite umane. Un tentativo di spiegazione l'ha fornito al seminario dell'Aur il corrispondente del National Catholic Reporter John Allen quando ci ha ricordato che 1) nell'ultimo decennio, nei grandi forum dell'Onu (Pechino, il Cairo), il Vaticano si è sempre schierato con i paesi islamici; 2) questa guerra è stata vista nel mondo come l'inizio della fase "l'Occidente contro l'Islam". Con la sua opposizione alla guerra, il Pontefice ha perciò distanziato il cattolicesimo dall'Occidente, si è riposizionato mondialmente. L'ipotesi forse è insufficiente, ma è interessante che il papa polacco, vessillifero dell'Europa cristiana, si distanzi dall'Occidente. Siamo sempre al mondo alla rovescia.

PS. La posizione più difficile in tutto il dibattito toccava a Scott Wightman, incaricato d'affari all'ambasciata britannica a Roma, e non solo perché da scozzese doveva difendere la politica inglese, ma perché l'unica possibilità di sopravvivenza politica per il Regno unito è barcamenarsi tra l'appartenenza (ufficiale) all'Unione europea e l'appartenenza (sostanziale e sentimentale) al Nafta, il Trattato del libero commercio nordamericano. Quanto fosse difficile la posizione inglese risulta chiarissimo dalla scomparsa di Tony Blair dalla scena internazionale. Appena finita la guerra è sparito dai teleschermi e dai summit. Sfruttato come alleato da mostrare al mondo, l'inglese che si pensava un leader è stato trattato come un maggiordomo e rispedito nell'ala di servizio a meditare, come il protagonista di Kazuo Ishiguro, a Quel che resta del giorno. Si può consolare: magari la Rai gli dedicherà una prossima puntata di "Chi l'ha visto?"

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …