Marco D'Eramo: I sans culottes alieni di oggi

19 Maggio 2003
Parigi - Molte sonorità e un'immagine, ecco quel che resta indimenticabile di Le Dernier Caravansérail (Odyssées), l'ultimo spettacolo montato dalla compagnia di Ariane Mnouchkine alla Cartoucherie di Vincennes a Parigi (in scena fino a giugno). Le sonorità sono quelle delle lingue - pashtun, parsi, hindi, kurdo, russo - in cui si esprimono in tutta la pièce rifugiati, esiliati, immigrati, profughi, cioè i protagonisti dell'"Ultimo Caravanserraglio" mondiale: quello dei centri di accoglienza e detenzione che aspirano e imprigionano il vortice di milioni di umani risucchiati e travolti dalle maree del capitalismo e delle dittature. Questi accenti ignoti di lingue incomprensibili ma bellissime si strutturano a poco a poco in struggenti, per quanto improbabili melodie vocali. E si porgono in confidenza aliena, in estraneità intima. L'immagine è la scena iniziale, in cui un immenso lenzuolo sbattuto e gonfiato si agita in onde accavallantesi e si trasforma in rabbioso torrente che profughi afghani tentano di guadare in quello straordinario spazio scenico che è il Théatre du Soleil. Nella stessa Cartoucherie, più di 30 anni fa avevo ammirato le produzioni che resero famosa Mnouchkine, 1789 e 1793, che mettevano in scena la rivoluzione francese in un tempo di rivoluzione sessantottina e che fecero epoca.
Trent'anni dopo, i profughi e gli immigrati, gli esuli e gli asylum seekers sono i sans-culottes di oggi, il quarto stato del presente, la plebe di questo ancien régime planetario, sembra dirci Mnouchkine. Da qui il sottotitolo Odyssées, a ricordarci la dimensione epica delle peripezie umane di queste masse umiliate, offese, angariate. Nella sua varietà etnica e razziale, la troupe corrisponde alla storia che racconta: comprende infatti attori di una ventina di nazionalità con latino-americani, russi, algerini, tibetani, kurdi, afgani. Ogni mattina hanno seguito lezioni di persiano date da un'attrice iraniana. Gli attori hanno allora costruito e inventato scene, performances, sull'onda di suggestioni che vanno dalle Mille e una notte all'Odissea (appunto), alla Tempesta di Shakespeare, capolavori che Mnouchkine raccontava loro durante la fase di preparazione. Una produzione di cui gli attori sono autori in senso pieno, tanto che Mnouchkine ha voluto essere cancellata dalla locandina (ma il giorno in cui ci sono andato, gli attori erano preoccupati e si dicevano a bassa voce "C'è Ariane, c'è Ariane!").
Lo spettacolo è così composto come un menu cinese di 102 scene e micro-racconti, da cui ogni singola recita sceglie e mette in tavola sono una parte sempre diversa (20 tableaux nella recitata a cui ho assistito), dalle prostitute slave, alla feroce misoginia taleban, ai centri di accoglienza come quello di Sangatte (ora chiuso) sul Pas de Calais, in cui sono stati rinchiusi fino a 60.000 stranieri, ai soprusi burocratici di grigi aguzzini ignari persino della propria crudeltà.
Eppure L'ultimo caravanserraglio non riesce a coinvolgere lo spettatore. In parte perché lo spettacolo è stato evidentemente pensato prima dell'11 settembre 2001 e quindi aggredisce i taleban come esercitassero una tirannia tuttora presente (è stata aggiunta solo un'ultima scena sulla liberazione di Kabul per tentare un'attualizzazione che risulta però appiccicaticcia).
Ma non è solo l'anacronismo. Nella matinée cui sono stato presente, si annoiavano gli adolescenti portati in scolaresca. In parte perché l'invenzione iniziale del torrente/lenzuolo s'insterilisce a poco a poco in una ripetitiva pratica di tavolette a rotelle (tutti i personaggi vengono trasportati e fatti evolvere in scena su una tavoletta a rotelle sospinta da inservienti chini): alla fine l'Odissea a rotelle diventa fastidiosa. In parte perché i vari tableaux, proprio perché parlati in lingue straniere, per essere comprensibili sono ridotti alla dimensione più elementare, si riducono cioè a stereotipi, se non a macchiette: in assenza di linguaggio, ciò che resta di comunicabile è il luogo comune, nel senso letterale del termine. Così, ci sono solo giovani donne distrutte nel fiore della gioventù, sadici taleban, torturatori, vittime, carnefici. La dimensione politica si riduce alla sfera della carità e il dramma al Teatro di San Vincenzo. Come un'avanguardia a fumetti.
Perché, eliminate le tavole a rotelle e le lingue straniere, l'impostazione è assai tradizionale, e risulta impietoso il confronto con le produzioni sulla rivoluzione francese. Allora i rivoluzionari parlavano, concionavano, si mischiavano agli spettatori, interagivano con il pubblico. Adesso loro lì (sulla scena) soffrono, mentre noi qui (in platea) ci commuoviamo. Forse è una differenza di clima, ma tra le due temperie c'è tutto l'abisso che passa tra la rabbia e la pietà, tra l'indignazione e la compassione. Soprattutto, ti viene rivelato tutto quel che già sai sul dramma dell'esilio e dello sradicamento, in quel tipo di produzioni che ti auto-confermano: ti dicono che hai sempre avuto ragione a pensare quel che pensi e ti fanno sentire buono, generoso, e umano di fronte alla crudeltà del mondo. Probabilmente anche queste pomate ai lividi dell'ego sono necessarie in un periodo in cui il comune sentire della sinistra le prende di santa ragione. Forse costituiscono anche un utile coadiuvante pedagogico per generazioni amnesiache. O, più semplicemente, costituiscono un modo tutto sommato a buon mercato e non troppo sgradevole, per sentirsi impegnati e per trascorrere la serata pensando di aver compiuto un gesto militante. Come avrà occasione di verificare chi assisterà a L'ultimo caravanserraglio quando verrà in tournée a Roma a settembre.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …