Marco D'Eramo: Capelli biondi, vita da neri

24 Giugno 2003
"Qualunque colore puoi immaginare" è la scritta a tutta pagina che campeggia sulla foto di un ragazzo, riprodotta in tre colori - uno bianco, uno più scuro, e uno molto scuro. È l'ultima pubblicità immaginata dall'agenzia Lowe Bull per l'industria di colori Dulux in Sudafrica, e sfrutta la vicenda che da più di un mese appassiona la nazione australe ancora alle prese con le ferite dell'apartheid. Perché la foto è quella di Happy Sindane, l'esile ragazzo dagli occhi marroni e i capelli biondi che lunedì 19 maggio si presenta al commissariato di Bronkhorstspruit, nella cittadina di Tweefontain, a circa 100 km a nordest di Johannesburg. Racconta all'ispettore Percy Morokane di essere un bianco rapito quando aveva sei anni ai suoi genitori afrikaner da una cameriera nera di nome Rina. Il ragazzo parla solo ndebele, la lingua dei neri locali, e capisce assai male sia l'afrikans sia il sotho. Afferma di essere nato il 4 maggio 1985 e di avere solo una memoria filmica della vita precedente. Ricorda solo alcuni particolari, come la foto del matrimonio dei genitori, o di avere avuto un cagnolino.
Secondo Happy Sindane, la sua rapitrice l'aveva portato in una città nera dove l'aveva lasciato a una coppia con cui aveva vissuto per un anno e che poi l'aveva consegnato a Betty Sindane a Tweefontein. Qui era stato costretto a lasciare la scuola, era stato praticamente schiavizzato dal padre di Betty Sindane, adibito a pastore del suo gregge, a ragazzo tuttofare, e picchiato senza ragione.
In poche ore il suo caso diventa l'argomento di discussione di tutto il paese. La Bbc dirama un lancio intitolato "lo schiavo bianco". Come ha scritto sul Mail & Guardian John Matshikiza, Happy Sindane è il remake moderno di Tarzan uscito dalla giungla dopo essere stato allevato dalle scimmie: "Immaginatevi un'altra simpatica, succosa parte per Leonardo Di Caprio come ragazzo biondo che per miracolo sfugge ai suoi tormentatori bantu, e riesce a tornare alla civiltà scappando attraverso lo spettacolare Kruger Park".
Prende il via una gigantesca operazione "Chi l'ha visto?". Decine e decine di famiglie bianche credono di aver ritrovato il figlio smarrito. Già il 21 maggio una povera coppia di afrikaners di Pretoria, Jan Hendrik e Sarie Botha, si fa avanti dichiarando che il loro figlio - all'epoca di sette anni - era scomparso nel 1992 mentre erano in una galleria di video: a quel tempo avevano pensato che fosse stato rapito da adepti di culti satanici, ma ora vengono a sapere che era stato schiavo e pastorello di una famiglia nera.
Nel frattempo la famiglia Sindane si sente tradita e insultata dalle accuse del ragazzo ed espone tutta un'altra storia. Il padre di Betty, Koos Sindane, un agiato allevatore, racconta che sua figlia Betty era andata a Johannesburg nel 1990 e una donna di nome Rina, e di etnia xhosa, le chiese di tenere il bambino piccolo che lei chiamava Happy, mentre andava a comprare birra. Betty accettò, ma Rina scomparve lasciandole il bambino. Così lei lo portò a casa dal padre. Koos Sindane andò dalla polizia per denunciare la scomparsa della madre, chiedendo che fosse ricercata. I poliziotti gli dissero di aspettare una loro telefonata, che non arrivò mai e alla fine Koos Sindane redasse una dichiarazione giurata secondo cui il bimbo era stato abbandonato e Betty lo adottò informalmente come figlio proprio.
I vicini di casa sono indignati perché dicono che il ragazzo è stato trattato con tutte le cure: "Dovrebbe essere grato perché nessuno avrebbe tirato su un ragazzo bianco in un quartiere come questo, pagandogli la scuola e prendendosi cura di lui" ha dichiarato Martha Jiane, una vicina dei Sindane. Rispetto agli altri ragazzi del quartiere, stava come un papa - dicono -, altro che schiavo, anche perché i Sindane sono agiati: hanno un frigorifero, un forno, finestre di vetro, un'auto e gli animali dormono non in casa ma in stalle. Happy aveva una stanza tutta per lui, con una lampadina, un letto con una coperta rossa, una sedia. "Era un mio nipote e l'ho trattato da nipote, aveva un sacco di amici, le cose gli andavano bene" dice la nonna adottiva Nurce Tshabangu.
È vero che all'inizio fu guardato con curiosità nel quartiere, tanto che la famiglia gli tinse i capelli di nero per farlo sembrare meno bianco. I compagni di classe nella scuola di Khuthalani lo chiamavano mlungu ("bianco" in zulu) e che ci scapparono un po' di zuffe e scazzottate, ma alla fine nessuno ci faceva più caso, era uno dei loro; dicono che era lento nell'imparare ma gli piaceva giocare a calcio, aveva amici, anche una ragazza. "Avevamo persino dimenticato che era bianco, era solo uno dei nostri piccoli" dice Martha Jiane. Happy abbandonò la scuola nel 2000 senza diploma e trovò un impiego saltuario in una miniera di cromo.
La vita si fece dura per Happy nel settembre dell'anno scorso quando morì sua madre adottiva Betty. Gli amici dicono che era inconsolabile e andava spesso a piangere sulla sua tomba. Happy ricadde sotto l'autorità del nonno adottivo, Koos. Un cugino, Ivan, di 19 anni, dice che c'erano liti fra nonno e nipote: "Qualche volta Happy rubava soldi per comprarsi dei dolci e non gli andava di dover accudire il bestiame". Secondo una zia adottiva, Koos era severo, ma pagava la scuola a Happy e lo trattava come gli altri nipoti. "Quel ragazzo non era uno schiavo. Badare al bestiame? Questa non è schiavitù, tutti i ragazzi lo fanno".
È l'altro punto che ha fatto infuriare i progressisti. Sul sudafricano Sunday Times scrivono Sean Jacobs ed Herman Wasserman: "Fin dall'inizio, la storia di Happy Sindane non è mai stata quella di un "ragazzo smarrito", ma è sempre stata quella di un ragazzo bianco smarrito. Perché tutta questa simpatia per lo smarrito Happy Sindane, mentre le vite di centinaia di migliaia di figli dei ghetti passano sotto silenzio nei mass-media, tranne quando beneficiano dell'occasionale magnanimità di un visitatore celebre o di una multinazionale come sponsor?"
Ma ecco nella vicenda irrompere altri protagonisti, con altre versioni. Una donna xhosa di Diepsloot, Tozi Ben, telefona ai giornali e dice che Happy è il figlio che sua cugina Rina Mziyaiya ha avuto nel 1984 da un commerciante bianco, un bimbo che lei ha allevato fino al 1989 quando non ha potuto più prendersi cura di lui per le ferite di un incidente. Pochi giorni dopo, il tabloid londinese Daily Dispatch rivela di essere stato contattato da Patricia Mziyaiya, sorella della defunta Rina, morta per alcolismo. Anche lei afferma che sua sorella ebbe un bambino dal suo datore di lavoro tedesco, di nome Moses, e che partorì un "bimbo bianco" nell'ospedale Thembisa vicino a Randburg. Infine il Sowetan riporta le dichiarazioni di un zimbabweano, Jabulani Nleya, che era stato amante di Rina Mzayiya e che dice di aver assistito al parto del bambino bianco il cui vero nome sarebbe Abi Xolani Mziyaiya.
A questo punto polizia e magistratura decidono di analizzare il Dna di tutti quanti, della coppia Botha, di Happy Sindane, del suo (forse) fratellastro, Zwelakhe, di 16 anni, che Jabulani Nleya aveva avuto da Rina Mziyaiya, delle altre famiglie bianche e non bianche che pretendono di avere legami con Happy. Per di più, c'è il problema dell'età: il ragazzo sostiene di avere 18 anni, ma i medici dicono che ne ha 16, e se fosse figlio di Rina, ne avrebbe 19 (e a quel punto il tribunale dei minori non sarebbe più competente). La faccenda è tanto complicata che l'udienza, prevista per il 17 giugno, è riportata al 15 luglio. Gli unici fatti certi sono che i Botha non possono essere i genitori di Happy e che Happy è almeno in parte nero (Dna dixit).
Sembrerebbe questa la soluzione più auspicabile, perché dimostrerebbe che Happy non è stato rapito da nessuno, ma è "solo" frutto di un amore ancillare di un bianco. Ma, curiosamente, in Sudafrica, questo finale scontenta tutti, perché da un lato Happy non è più "lo schiavo bianco", il nuovo "Tarzan uscito dalla giungla"; dall'altro non è nemmeno nero, ed è confinato in quella letterale "terra di nessuno" che in Sudafrica sono i colored, i sangue misti, di cui i neri diffidano perché complici nel sangue dell'oppressione bianca, e che i bianchi disprezzano, leggendovi le colpe della propria sessualità schiavista.
Non si sottolineeranno mai abbastanza i misfatti, le tragedie, le quotidiane infelicità che comporta questa passione tutta moderna per l'identità. Quando il 19 maggio è andato al commissariato, Happy Sindane l'ha fatto forse per sfuggire al destino di vaccaro. O forse perché aveva paura del rito di passaggio che lo aspettava in quanto nero: una circoncisione senza anestesia. Certo è che la sua storia è uno dei più semitragici, semicomici esempi delle ossessioni identitarie: un ragazzo che (come racconta il fratello adottivo) "voleva essere nero", ha deciso un giorno di diventare bianco, e si scopre adesso relegato nella terra di nessuno dei colored. Né Leonardo di Caprio, né Denzel Washington. Sarebbe troppo facile giocare sul nome e parafrasare il racconto di Ernest Hemingway "Breve la felice vita di Happy Sindane". L'unica sua speranza è che ora l'avvocato riesca a spremere un po' di soldi dalla Dulux come risarcimento per la loro pubblicità, che comunque un fondo di crudele verità ce l'aveva quando imboniva "Qualunque colore immaginiate..."

PS. Le notizie scritte qui su sono state tratte dagli articoli pubblicati dall'agenzia Iol il 20 maggio e 17 giugno 2003, dal Mail & Guardian (sudafricano) il 22, 26, 29 maggio e 2 e 4 giugno; dal Sunday Times (sudafricano) il 25, 26 maggio e 22 giugno; dal New York Times il 19 giugno; dal Guardian (Gran Bretagna), il 22 e 23 maggio; dall'Observer il 22 giugno.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …