Giuseppe Montesano: Castelvolturno, Africa

31 Luglio 2003
Siamo nell’entroterra di Castelvolturno, e ci muoviamo con la lentezza esagerata di una scena al ralenti in un film nel deserto africano. Ho l’impressione di girare in tondo da anni o da secoli, e vedo doppio come se fossi ubriaco. Mi sembra di fissare sempre lo stesso negozio con le grandi mozzarelle di plastica affollate di mosche e di vedere sempre la stessa mandria di bufale che giace indolente e incrostata di fango come in un’India troppo familiare. E sento una specie di allarme che morde al ventre, un senso di smarrimento che mi prende come una improvvisa stanchezza e forse è solo paura.
Il missionario che da ore mi sta portando in giro per queste strade smangiate da erbacce giallastre non sembra stanco di spiegare. Ma come faccio a non accorgermi di quello che ho sotto gli occhi? Qui la crosta della civiltà è sottile, e tutti sanno che si può spezzare anche domani. Chi vive qui è stato l’extracomunitario della Storia per secoli, per secoli si è aggirato nelle burocrazie come un sans papier, e ancora oggi si sente a malapena un abusivo della vita. Secondo lui è questa paura sotterranea di perdere ciò che non si è mai posseduto veramente che scatena il rifiuto degli altri, è questa che impedisce alle persone di vedere che un bambino che ha bisogno di antibiotici non ha colore, ed è questa paura che ci mette sulla difensiva come animali a cui altri animali invadono il territorio. E ho mai osservato, mi dice sommesso, lo sguardo infastidito dei sazi quando guardano un affamato? "È uno sguardo che non vede o non vuole vedere, perché non sopporta di sentirsi come l’altro, non ha abbastanza pazienza per la fraternità. Eppure lo sanno tutti, lo sappiamo tutti che al posto di quell’affamato potrei esserci io, o tu, o i loro figli..."
Lo ascolto inebetito dal caldo, e mentre mi asciugo il sudore dico come se parlassi a me stesso: "Siamo tutti extracomunitari, allora". L’uomo scuote lentamente la testa, e fa uno strano sorriso. "Lo dici, sì, ma non riesci a crederci veramente. Ma quanta differenza c’è tra il ragazzino che non finisce le elementari e va a farsi sfruttare per quattro soldi come stagionale a vita e un "nero"? Loro ci ricordano ferite che credevamo dimenticate, povertà, famiglie dove i più piccoli muoiono per denutrizione, viaggi di notte in treno come deportati verso la Germania o la Francia, giorni e giorni sull’acqua salata verso l’America senza un soldo in tasca e senza una lingua in bocca, ci ricordano la precarietà. E questa è una cosa ancora dolorosa, difficile da accettare..." E poi l’uomo mi porta a vedere i loro bambini, mi indica per nome le donne che si vendono sull’asfalto cocente, sa dove si aggirano gli spacciatori, mi fa entrare nelle stanzette cupe dove i corpi si ammassano come cadaveri, parla con loro e ne ascolta paziente il pianto. Anche con me è stato gentile, e solo quando gli ho detto che io "volevo solo capire", il suo tono si è fatto tagliente. Capire! "E come fai? Non sai più cos’è la fame che morde, l’umiliazione senza fine, il corpo che diventa una cosa. Come puoi capire?"
È ormai sera quando mi riporta indietro, gualcito e disfatto come se non mi lavassi da giorni. Tra una settimana riparte per l’Africa, là ci sono cose difficili persino da immaginare, e a pensarci troppo si corre il rischio di impazzire. Mi stringe la mano e se ne va, augurandomi la buonanotte. La buonanotte? Sono ore che mi rivolto nel letto, e non riesco a chiudere occhio. Mi sento come se avessi mille anni, appena provo a distendermi nel sonno un allarme che morde al ventre mi fa sussultare, e risento la voce dell’uomo addolcirsi un momento per dire che siamo tutti uguali solo nell’amore. È davvero così? Non lo so più da troppo tempo, so solo che stanotte mi amo molto poco, e vorrei che venisse presto mattina.

Giuseppe Montesano

Giuseppe Montesano è nato a Napoli. Ha pubblicato due romanzi: A capofitto e Nel corpo di Napoli (Premio Napoli, Superpremio Vittorini, Premio La Torre, Premio Scommesse sul Futuro, finalista Premio …