Gianni Riotta: I «cento passi» russi. Due giornalisti liberi

03 Novembre 2003
Tutti voi avete negli occhi la foto che io, nato e cresciuto a Palermo, non riesco mai a guardare senza un brivido. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i due magistrati uccisi dalla mafia, sono seduti al tavolo di un convegno, e si scambiano una battuta, a giudicare dai loro sorrisi, ribalda. C’è tutto in quella foto, la forza nell’affrontare la criminalità e i poteri corrotti, ma anche l’ironia del non prendersi mai troppo sul serio, comportarsi da eroi, ma con la grazia di far finta di nulla. La stessa luce, l’identica atmosfera, ho rivisto in una foto scattata un paio di anni fa. Al centro due ragazzi, a braccetto, uno più alto, l’altro appena appoggiato all’amico, come a cercarne il sostegno, la protezione. Negli occhi la forza di ogni giovinezza, l’illusione fantastica di potere battersi contro le forze del male ma senza esserne toccati. Quella foto è stata presa a Togliattigrad, la città russa sul fiume Volga, che prende il suo nome dall’antico segretario del Partito Comunista Italiano ed è celebre per la fabbrica di automobili costruita dalla Fiat, oggi trasformata in un conglomerato che si chiama Avtovaz. I due ragazzi sono Valery Ivanov, alto e serio, e Alexei Sidorov, tenero e un po’ impacciato. Sono fieri, in quell’istantanea, del giornale che hanno fondato La rivista di Togliattigrad. Valery è il direttore, energico e deciso, Alexei il capo redattore, scrupoloso e attento. Insieme usano la rivista per informare l’opinione pubblica sugli abusi e gli scandali che le gang locali, la mafia, complici i dirigenti corrotti dell’amministrazione pubblica, infliggono alla comunità. Tangenti, fondi neri, traffici di stupefacenti, poliziotti che guardano dall’altra parte, politici che chiedono mazzette in cambio di silenzio e connivenze. Con l’entusiasmo dei giornali privi di soldi ma ricchi di onestà e impegno, La rivista di Togliattigrad diventa popolare, unica difesa dei lettori contro la prepotenza. Gli oligarchi, così si chiamano in gergo gli affaristi russi, metà speculatori, metà mafiosi, puntano però Ivanov. Telefonate anonime, messaggi minatori. Il direttore ingaggia una guardia del corpo che però non può permettersi di pagare a tempo pieno. Ogni sera, alle 21.30, il gorilla stacca e timbra il cartellino e Ivanov resta solo, informa nella sua ricostruzione dei fatti, che qui sto utilizzando, Margaret Paxson, studiosa dell’Istituto Kennan al Centro Internazionale Woodrow Wilson. Finché, il 29 aprile del 2002, Ivanov parcheggia l’auto sotto casa e un sicario della Nomenklatura lo fredda a rivoltellate. Alexei Sidorov prende la guida della rivista. Soldi sempre pochi, difficoltà tecniche tante, ma il foglio continua a informare la gente e dar fastidio ai potenti. Non dura: il 9 ottobre scorso un killer accosta Alexei che sta passeggiando con la moglie, e gli infligge una serie di pugnalate con un rozzo coltello fatto a mano, come quelli in uso, di nascosto, nelle carceri. Alexei muore sanguinante tra le braccia della moglie. Aveva 31 anni, due in meno di Valery, il suo direttore ed amico. La storia finisce così, non troppo originale in Russia, Paese in cui il presidente Vladimir Putin ha zittito le tv ostili, epurato i giornali di opposizione e intimidito i cronisti indipendenti. Ora alcune domande, senza polemica e in buona fede. Avete sentito denunce, proteste, emozione per la mattanza contro i liberi giornalisti di Togliattigrad? Avete letto titoli grondanti sdegno, o magari un saggio repentino in libreria per stigmatizzare la macchina del consenso russo, oliata non a soldi ma a sangue? Mi pare di no. Perché? Perché, giustamente, ci indigniamo contro l’opportunismo, le censure, il materialismo e i silenzi della stampa occidentale - tema sul quale mai mi tirerò indietro - ma consideriamo invece, come dire?, ovvie, secondarie, queste stragi in Russia? Putin ha, la scorsa settimana, condotto un’abile mediazione tra Stati Uniti ed Europa all’Onu a proposito di Iraq. Non sarebbe il caso di chiedergli conto della persecuzione dei giornalisti, del perché polizia e servizi segreti non muovono un dito nelle inchieste? I nostri teneri colleghi Valery e Alexei, caduti nei loro «Cento passi» russi per un’idea di mestiere che speriamo non scompaia, non meritano il nostro silenzio.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …