Gianni Riotta: Fantasmi vietnamiti per Wolfowitz

03 Novembre 2003
Colpendo l’albergo dove risiedeva il viceministro della Difesa americano Paul Wolfowitz la guerriglia irachena ha provato a conquistare lo scalpo del più fiero paladino della guerra a Saddam Hussein, ripetendo l’effetto dell’offensiva del Tet a Saigon, nel 1968. Venticinque anni fa 50 milioni di statunitensi videro alla televisione le immagini del loro ambasciatore Ellsworth Bunker che ispezionava il giardino della sede diplomatica, attaccato dai vietcong e ancora punteggiato di cadaveri. Arrivati con gli autobus e i taxi, i commandos vietnamiti avevano aperto una breccia nel muro di cinta, s’erano fatti largo a colpi di mitra, uccidendo quattro marines e assediando il colonnello George Jacobson nella sua stanza, a difendersi con un revolver, come in un western. In sei ore il generale William Westmoreland eliminò l’ultimo infiltrato e dichiarò «sicura» l’ambasciata. Ma l’inconscio collettivo Usa non si riprese mai più: la guerra durò altri sette anni, ma il Vietnam sconfisse psicologicamente quel giorno la Casa Bianca. La visita di Paul Wolfowitz, capofila dei neoconservatori, un intellettuale accademico con l’hobby rischioso del kayak, era stata preparata per mettere in evidenza quel che sta funzionando in Iraq. All’editorialista del Washington Post David Ignatius, che lo accompagna in viaggio, Wolfowitz racconta soddisfatto: «Ho dormito nel palazzo di Saddam!». E' vero, Wolfowitz ha passato la notte nel complesso presidenziale di Tikrit, un paesaggio da Indiana Jones, ville decorate da marmi, palmizi, lo specchio d’acqua dell’ansa del Tigri, datteri e agrumi, a pochi passi dal villaggio dove Saddam è nato. Là ha sede il comando della IV divisione: l’ho visitato in agosto, vietato fumare, vietato leggere riviste porno, aria condizionata, ragazzi perbene e donne capitano, la Coca nelle macchinette. Il soldato di guardia mi spiegò che, appena fuori dal palazzo, arrivavano ogni notte razzi e colpi di arma da fuoco da una scuola abbandonata. E nel villaggio tanti tengono la foto di Saddam in casa, mentre i suoi feddayn cacciarono me e il traduttore da un giardino «sacro» al raìs. Wolfowitz insiste dunque: «Tikrit è un simbolo, qui si è votato per il consiglio provinciale, la forza del Baath si sta liquefacendo». Il suo piano è semplice: riorganizzare esercito e polizia iracheni e reclutare una milizia di 62.000 uomini per controllare città e infrastrutture, impegnando i soldati Usa nella caccia a Saddam e ai guerriglieri. Gli americani devono conquistare «la mente e il cuore» degli iracheni attraverso la ricostruzione, la diffusione della democrazia, elezioni, lavoro, una vita quotidiana dove l’esercito delle stelle e strisce non sia un odioso occupante ma una garanzia, ristretta nelle basi militari, come in Italia, Germania e Giappone nel dopoguerra. E' la strategia che la guerriglia, sempre meglio organizzata e diretta, vuole sgominare. All’ambasciata di Saigon i vietcong arrivarono con i mezzi pubblici, senza dare nell’occhio. A Bagdad i miliziani hanno colpito con pari audacia e freddezza politica. Wolfowitz risiedeva nell’hotel Al Rashid, che funge da quartiere generale della coalizione. L’intera area è blindata. Per un paio di chilometri intorno, il filo spinato lucido, detto «fisarmonica», stende una serie di labirinti, chiusi da controlli e da barriere in cemento armato. Il commando iracheno ha parcheggiato un pulmino sul viale 14 luglio, appena fuori dalla zona off limits. Al traino, camuffata da generatore elettrico, una batteria di quaranta razzi, made in Francia e Russia, calibro 68 millimetri con portata da tre chilometri e calibro 85 millimetri con portata cinque chilometri. Una rampa di lancio Katyuscia come quelle che fecero strage dei nostri alpini in Russia nel 1942, ma adattata alla guerriglia urbana con un disegno elaborato dai terroristi irlandesi dell’Ira. Wolfowitz era in riunione un piano sotto il bersaglio e s’è salvato. Un tenente colonnello è stato ucciso, quattro militari e sette civili Usa e quattro civili iracheni sono stati feriti. Il viceministro è poi apparso teso e provato a dire: «La nostra missione in Iraq continua, considero eroi gli iracheni che si stanno battendo contro chi li ha oppressi per 25 anni». L’attentato, che solo per caso non ha dato a Saddam Hussein e all’armata di fondamentalisti che combatte ora al suo fianco il trofeo prestigioso del nemico giurato Paul Wolfowitz, illustra come si stia evolvendo la guerriglia, politicamente e militarmente. Gli esperti militari Tom Donnelly e Gary Schmitt ricorrono al testo base dei Marines sulla guerre a bassa intensità, Manual for small wars del 1940 per ricordare che è indispensabile prima «vincere la pace...ripristinare la fiducia sociale ed economica...mettere all’opera la diplomazia e le forze civili del Paese, agendo d’accordo con la popolazione per convincerla del fine comune». Le università, le scuole, i centri culturali che già operano liberi a Bagdad provano che il Manuale delle piccole guerre ha ragione, e paradossalmente proprio Wolfowitz, fautore della via militare al dopoguerra ha sperimentato ieri, sulla propria pelle, le conseguenze degli errori commessi alienando le simpatie degli alleati, disprezzando il dialogo diplomatico del Dipartimento di Stato e agendo in Iraq senza curarsi della buona volontà e della cultura locale. Wolfowitz, che per primo nel 1992 propose con Dick Cheney (oggi vicepresidente) all’allora presidente George Bush padre la strategia unilaterale di difesa, da accademico crede nell’ideologia, tracciare un disegno politico a tavolino ed eseguirlo senza curarsi di adattarlo alla tattica, sempre cangiante, del Medio Oriente. E' la critica che gli rivolge, da stratega e da candidato democratico alla Casa Bianca, l’ex generale Wesley Clark in un saggio sulla New York Review of Books di ottobre, «Iraq: dove abbiamo sbagliato". E' la critica feroce che gli ha indirizzato il commando iracheno provando ad ucciderlo. Ed è la critica che il presidente George W. Bush, tardivamente, ha accolto, togliendo al ministro della Difesa Donald Rumsfeld e a Wolfowitz, la regia del dopoguerra in Iraq, affidata alla misteriosa signora Condoleezza Rice. Riuscirà la consigliere per la sicurezza nazionale, finora rimasta dietro le quinte, ad evitare che l’agguato all’hotel Al Rashid bruci i nervi degli americani come la scorreria all’ambasciata di Saigon 1968?

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …

La cattura

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