Gianni Riotta: Poveri ed ex poveri. Il nuovo fronte dei «non allineati»

03 Novembre 2003
Tra il 18 e il 24 aprile del 1955 si tenne a Bandung, in Indonesia, una storica conferenza dei Paesi di Asia e Africa. India, Cina, Indonesia, Pakistan e altre 25 nazioni, che insieme rappresentavano oltre metà della popolazione umana, si riunirono per discutere della Guerra fredda, dello sviluppo, del colonialismo, di un pianeta dove forza e ricchezza decidevano e i poveri obbedivano. Francia e Olanda controllavano ancora i loro vecchi domini, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica cercavano clienti, le Nazioni Unite erano una riserva di buone intenzioni. A sorpresa, il premier cinese Zhou Enlai rivolse un appello ai leader anticomunisti che gli sedevano accanto. Su pace, cooperazione e responsabilità dell’Onu, disse Zhou, possiamo trovare l’accordo che l’ideologia politica ci nega e crescere insieme, a dispetto delle ricche potenze. Il primo ministro indiano Jawaharlal Nehru dettò la risoluzione finale che, in quel mondo gelato, seppe prendere le distanze anche dall’Urss denunciandone le pretese imperialistiche. Bandung fece sognare tanti, il Che Guevara parlò di «primo summit che esclude lo strapotere dei bianchi», ma presto sfiorì. La scelta politica e morale tra le democrazie occidentali e l’oppressione poststalinista non lasciava spazio a mediazioni. La Cina cadde preda delle violenze con la Rivoluzione Culturale, l’Egitto si avvicinò a Mosca, il movimento dei «non allineati», dalla Jugoslavia del maresciallo Tito all’India di Nehru, si marginalizzò perché il Muro di Berlino divideva potere e coscienze. La speranza dell’emancipazione politica fu la bandiera di Bandung e dei «non allineati». Mezzo secolo dopo i paesi terzi si rimettono a cercare una loro strada: stavolta però non percorrono l’utopia di una rivoluzione politica, ma la concreta, modesta e, in prospettiva assai più efficace, via dell’intesa economica. Cina, India, Brasile e Sud Africa hanno deciso di presentarsi d’ora in poi come un blocco comune alle trattative internazionali sul commercio, le tariffe, l’economia. Gli Stati Uniti, l’ultima superpotenza, il Giappone e l’Europa non avranno più di fronte dei lillipuziani ma una coalizione enorme, miliardi di uomini e donne. Stavolta il Che Guevara dovrebbe annotare che gli uomini bianchi, con il Brasile e il Sud Africa, sono parte del processo. L’idea è condensata dal ministro del commercio e dell’industria sudafricano Alec Erwin in un colloquio con il quotidiano Financial Times: «Il peso delle nostre economie nel mondo globale è troppo grande per essere ignorato ... americani, europei e giapponesi capiranno che non basta più chiudersi nell’Organizzazione mondiale del commercio, il Wto ... la realtà è mutata». La fine della Guerra fredda comincia a dare frutti maturi, ma i leader, le diplomazie e i mass media occidentali restano fissati nel protocollo di un mondo diviso tra «forti e deboli», «ricchi e poveri» e stentano ad adattarsi alla nuova situazione, pronti a tutto tranne che alla realtà. Stati Uniti, Europa e Giappone sono andati alla trattative su dazi e commerci a Cancun illudendosi di far accettare ai paesi in via di sviluppo una trappola: adottare le regole del libero mercato quando convengono agli occidentali, vedi produzioni a basso costo in Europa dell’Est e Asia, ma evitarle accuratamente quando aiuterebbero i poveri, vedi i grassi sussidi all’agricoltura che affamano l’Africa. La doppia morale infiammava i comizi ai tempi di Bandung, oggi rimanda i paesi terzi al tavolo della trattativa. Attorno a Brasile, Cina, India e Sud Africa si raccoglie una costellazione che va a includere i paesi latinoamericani del Mercosur, gli africani del Sud stretti da un patto doganale e, presto, Filippine, Indonesia, Nigeria ed Egitto. Washington ha provato a staccare il presidente egiziano Hosni Mubarak dal nascente colosso del G20, ricorrendo alla minaccia di tagliare gli aiuti economici. Non è servito. Il Cairo ha compreso che il futuro è l’alleanza di poveri ed ex poveri, che la politica può dividere, la Cina comunista, il presidente Lula in Brasile, descamisado cosciente che lo sviluppo cancella la miseria, autocrati arabi, le democrazie di India e Sud Africa, ma l’economia unisce. E' sconsolante vedere quanto poco i leader del mondo di ieri, raccolti intorno ai fasti di un impero in decadenza detto G8, comprendano il tumultuoso processo in corso. Nel suo viaggio in Australia il presidente americano George W. Bush è stato fischiato al parlamento da deputati verdi e altrimenti solo formalmente applaudito. Il suo discorso s’è limitato alla guerra contro il terrorismo eludendo i temi della crescita e della cooperazione panasiatica. Due giorni più tardi il discorso del presidente cinese Hu Jintao è stato punteggiato da applausi e ovazioni dei parlamentari e ha abbracciato i punti globali dello sviluppo: Cina e Australia, nemiche giurate ai tempi della Guerra Fredda nel Pacifico, si scoprono partner strategiche nel XXI secolo. Stessa miopia alla Conferenza per gli aiuti all’Iraq, conclusa a Madrid con l’impegno a sottoscrivere 36 miliardi di euro, di cui 22 offerti dagli Usa e 14 dal resto del mondo, parte in donazioni, parte in prestiti. L’Unione Europa contribuirà le briciole, 260 milioni di euro, con Francia e Germania che tengono la borsa chiusa, per il rancore seguito all’attacco Usa a Saddam. Una strategia d’altri tempi, da generali borbonici elusi dalla guerriglia di Garibaldi: il valore globale di un successo democratico in Iraq passa in secondo piano davanti al risentimento per la strategia unilaterale della Casa Bianca. Analoghi problemi in Iran, dove Usa e Ue, anziché procedere insieme per contenere la minaccia nucleare di Teheran, si dividono: gli ayatollah hanno siglato un patto - su pressione europea - che lascia però zone d’ombra e di confusione su cui presto nasceranno altri guai. Morale della favola: se gli occidentali, dal commercio, all’Iraq e alle armi nucleari, si dividono, stizzosi e impotenti come i capponi che Renzo Tramaglino porta, in inutile dono, all’Azzeccagarbugli, perdono la chance di promuovere benessere e democrazia. Il resto del mondo, popolato in gran parte da giovani e affamato di futuro, decide di lasciare nella soffitta del passato il ciarpame ideologico e di darsi da fare nel presente, dove l’economia conta più della politica. Il dibattito di casa nostra oppone globalizzatori e no global in chiassose polemiche che spacciano nelle scuole fumo ideologico, nocivo alla salute mentale senza neppure un etichetta a metterci in guardia. Intanto milioni di esseri umani, e i grandi paesi del futuro, si mettono insieme, non per la rivoluzione, ma per assicurarsi pane e felicità, qui e ora. Con i nostri summit, i nostri sussidi, i dazi a doppio taglio, la paura dell’avvenire, noi occidentali rischiamo di apparire come i vecchi cicisbei della corte di Re Luigi XVI, aristocraticamente fieri delle loro pompose tradizioni, mentre una generazione nuova, energica, entusiasta, capace di solidarietà e di orrori, si apprestava a spazzarli via. La rivoluzione è cominciata, con i bilanci del dare e dell’avere per bandiera e una trattativa ad oltranza per fanfara: fate attenzione e già la sentite nell’aria.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …