Marco D’Eramo: La forza del dollaro debole

03 Novembre 2003
CHICAGO - Il ministro del tesoro degli Stati uniti, John Snow, entra nella saletta adibita alle riunioni di direzione del Chicago Tribune. Insieme a lui, ci sono il suo azzimato vice dai capelli brizzolati e due assistenti, serafici mastini azzimati in una divisa di scarpe nere lucide, completo nero e camicia bianca, che ricorda gli addetti alle pompe funebri. "Ho appena visto Giulio Tremonti, è molto bravo" mi dice il ministro quando gli vengo presentato. 64 anni, John Snow ha passato venti anni alla Csx, grande impresa di trasporti, di cui è stato anche presidente e amministratore delegato. Non è una stella, non un dirigente di prima grandezza come era per esempio Paul O'Neill di cui nel gennaio scorso ha preso il posto di segretario del tesoro, che era stato amministratore delegato del gigante dell'alluminio Alcoa, e che George Bush il giovane ha liquidato perché troppo "moderato". A differenza di O'Neill, Snow non pretende di elaborare una politica propria, ma esegue le direttive che gli vengono dai due veri centri di potere della Casa bianca, dall'onnipotente consigliere politico di Bush, Karl Rove, e dalla vera eminenza grigia dell'amministrazione, il vicepresidente Dick Cheney.
In un'oretta di conversazione, Snow dipinge un quadro roseo del futuro economico americano: ora la ripresa rallenta, va bene, ma perché stava surriscaldandosi; gli affari sono in ripresa e nell'anno prossimo la crescita viaggerà intorno al 4% del Prodotto interno lordo (Pil).
Sul fronte degli scandali delle grandi corporations (come Enron, Andersen, Tyco, Qwest) scoppiati due anni fa, quasi nulla è stato fatto da allora per arginare quella che qui è chiamata la "cucina contabile" dei bilanci (cooking the books) e quasi nessun dirigente di quelle società è stato condannato; ma per John Snow, "sono stati computi tremendi progressi nel restaurare la fiducia degli azionisti" e nel rendere più trasparente la corporate governance, limitando gli abusi: in ogni caso "sono tramontati i giorni degli onnipotenti amministratori delegati".
Snow dice che le ditte stanno tornando in nero, non sono più in perdita, gli utili si fanno più pingui, le quotazioni in Borsa salgono (anche se proprio mentre parlava, Wall street ha avuto un bel tonfetto), e il ritornello è che il mercato sta riacquistando fiducia nel futuro.
Il mercato è un mantra che funziona da panacea universale. Gli si chiede se il deficit statale degli Usa non sta andando fuori controllo (è stato di 375 miliardi di dollari per l'anno fiscale appena concluso e sarà di almeno 500 miliardi di dollari per quello corrente). "L'importante è la percezione ne ha che il mercato: il deficit diventa un problema quando il mercato ritiene che questo aumenterà indefinitamente, ma se il mercato pensa che diminuirà in termini assoluti, o anche solo in termini relativi al Pil, allora non c'è ragione di preoccuparsi. E comunque noi lo ridurremo della metà nei prossimi cinque anni". Non c'è analista economico al mondo che sottoscriverebbe questa previsione, dato che tutti predicono una dilatazione forsennata del debito pubblico americano.
Anche per le valute è il mercato a pronunciare il verdetto divino. Quando gli chiedo se la decisione presa a Dubai nell'ultimo vertice del G8 non rappresentava forse l'inizio di una nuova stagione di dollaro debole, la risposta, quasi indignata, è che no: nessuno a Dubai ha interpretato la risoluzione finale come una spinta alla svalutazione del dollaro, "certo non l'hanno intesa così né il ministro delle finanze italiano Tremonti, né il suo collega tedesco né gli altri governi che erano presenti". "Gli Usa sono per un dollaro non debole ma giusto; stiamo spingendo per un dollaro determinato dal mercato, dal valore che il mercato gli attribuisce per proprio interesse (self-interest)" (e uno dei Men in Black che lo circondano ribadisce: "Dire dollaro flessibile non vuol dire dollaro debole"). "Le variazioni dei corsi delle valute sono assorbitori di urti quando i deficit o gli eccedenti commerciali di un paese sono eccessivi".
In parole povere: svalutando, un paese rende le importazioni meno competitive e diminuisce il deficit: mentre gli altri paesi s'indebitano in valuta straniera, così che il loro debito cresce quando svalutano, gli Stati uniti hanno il privilegio d'indebitarsi nella propria valuta e quindi possono svalutare senza il rischio dei gonfiare il debito estero, almeno a breve termine. Ma quest'obiettivo si rivela contraddittorio con l'altra esigenza del tesoro Usa, e cioè che anche gli altri paesi del mondo si facciano carico della ripresa economica: ma se, attraverso la politica del dollaro debole, gli Usa riducono le importazioni dagli altri paesi, è molto difficile che questi ultimi possano uscire dal ristagno (o, peggio, dalle recessione).
Quanto all'altro grande tema di attualità, ovvero sia le pressioni sulla Cina perché rivaluti, è certo "nell'interesse della Cina andare verso una politica monetaria più flessibile e sarò molto incoraggiato quando la Cina lascerà fluttuare la sua valuta", però - qui Snow si dimostra prudente - "dobbiamo riconoscere che gli ci vorrà del tempo per permettere alle loro infrastrutture finanziarie di adeguarsi alla flessibilità": questa concessione di credito alla Cina contraddice le recenti pressioni su Pechino, ma forse mira a non far aumentare troppo i prezzi dei beni importati dalla Cina, non alimentare perciò l'inflazione, che a sua volta potrebbe provocare un rialzo dei tassi d'interesse, e quindi un nuovo rallentamento.
Dove però l'ottimismo di Snow è degno di Candide, è quando predice - o meglio, auspica - che entro l'anno prossimo l'economia americana avrà creato due milioni di posti di lavoro, basandosi sul fatto che negli ultimi mesi "il lavoro temporaneo è andato molto forte" e che a settembre, per la prima volta da gennaio le statistiche hanno mostrato la creazione di 57.000 posti di lavoro. Ma come ha notato Paul Krugman sul New York Times, a causa della crescita demografica, masse di giovani entrano nel mercato del lavoro, e perciò, per mantenere inalterato il tasso d'inflazione, dovrebbero essere creati ogni mese 130.000 posti di lavoro nell'economia statunitense e non 57.000. In ogni caso, nota sempre Krugman, a gennaio la Casa bianca prediceva la creazione di 5 milioni di posti di lavoro e ora ne profetizza solo 2, meno della metà. Per di più, da quando Bush è salito alla presidenza, sono stati persi 2,8 milioni di posti di lavoro, quindi, in ogni caso, rimarrebbe un buco di 800.000 posti. Ma, se si tiene conto dell'aumento della forza lavoro tra il 2000 e il 2004, allora per mantenere la disoccupazione al livello a cui l'aveva lasciata Bill Clinton, andrebbero creati entro l'autunno prossimo sette e non due milioni di posti.
Obietto a Snow che dal suo quadro, l'economia Usa sembra non avere problemi: "Certo i posti di lavoro non sono stati creati alla velocità che avremmo auspicato, e poi bisogna procedere alla riforma della sanità", ma il messaggio di Snow è che il peggio è passato e che la situazione non può che migliorare. Il fatto è che il tempo stringe per le prossime elezioni presidenziali, e che il ricordo è troppo cocente della sconfitta di Bush il vecchio, causata proprio dalla mancata crescita economica. Il margine di manovra per creare veri posti di lavoro è ormai quasi nullo (ci vuole tempo perché un progetto sia approvato, messo in opera, e perché i salari pagati ai lavoratori del progetto entrino in circuito nell'economia agendo da volano). L'unica soluzione sta nella vecchia arma delle aspettative auto-realizzantesi: come è noto, se tutti sono convinti che ci sarà recessione, nessuno spende, perché tutti risparmiano in vista delle vacche magre, e l'economia va davvero in recessione; mentre se il pubblico è convinto che ci sarà crescita, spende ipotecando i futuri guadagni, e l'economia riparte sul serio. Perciò l'amminstrazione Bush sta facendo di tutto perché ci sia, se non una vera ripresa economia, almeno una percezione pubblica di ripresa. Ma sempre in uno quadro di straordinaria rigidità ideologica. Come è emerso dalla discussione con Snow, per quest'amministrazione il ritorno al profitto del capitale investito è un postulato, un dogma, una conditio sine qua non; mentre il ritorno all'occupazione è un auspicio, da realizzare, se possibile.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …