Marco D'Eramo: In trappola

06 Novembre 2003
Il totale dei soldati della coalizione morti in Iraq dall'inizio della guerra è salito a 434, di cui 378 americani, dopo che domenica è stato abbattuto un elicottero Chinook, uccidendo 16 militari e ferendone altri 20: è stato l'attacco più letale di tutta la guerra. Ma ancora più impressionante è il totale dei feriti statunitensi fino a oggi: 2.149. C'è di più: il numero dei rimpatriati negli Stati uniti dall'Iraq per ragioni di salute supera i 6.000. Queste cifre sono irrilevanti rispetto agli standard bellici - tra gli iracheni i morti sono tra gli 11 e i 15.000 -, e la guerriglia è ben lungi dall'aver raggiunto la massa critica, quella che costringerebbe al ritiro la coalizione angloamericana. Ma è la dinamica a destare più ansia tra le forze di occupazione: gli attacchi aumentano di mese in mese (ora siamo sopra i 30 al giorno) e la media giornaliera dei caduti sale, invece di diminuire. E a fare da cuscino tra occupanti e occupati ci sono sempre meno organizzazioni umanitarie, dopo che Nazioni unite e Crocerossa hanno ritirato il proprio personale. La Casa bianca minimizza la strage di domenica. E anche i mass-media americani non si scompongono più di tanto, come fosse una fatalità data per scontata. Per misurare quanto è cambiato il clima, basti pensare a dieci anni fa, il 3 ottobre 1993, quando 18 marines furono uccisi in Somalia: l'effetto fu l'immediato ritiro del contingente Usa.
Oggi invece l'amministrazione repubblicana sembra colta da una sindrome di rifiuto della realtà: continua ad attribuire gli attacchi a terroristi stranieri, a schegge impazzite, a nostalgici fedelissimi di Saddam: elementi senz'altro presenti, ma che sarebbero dovuti diminuire col tempo. George Bush e i suoi rifiutano di considerare il fattore più ovvio: il diffondersi del nazionalismo antiamericano e dell'ostilità al regime di occupazione. Quando a maggio arrivò a Baghdad, come primo atto l'attuale proconsole Usa, Paul Brenner, sciolse l'esercito e il partito Baath, privando di ogni fonte di reddito 450.000 uomini, cioè 2,7 milioni di persone contando i familiari. Con quella decisione offrì migliaia di volontari alla guerriglia su un piatto d'argento. Oggi, di fronte all'escalation degli attacchi, lo stesso Brenner vuole ricostituire l'esercito e gettare in strada poliziotti iracheni ancora in corso d'addestramento: è la strategia degli ascari, truppe locali da far combattere al proprio posto. Ma è un'arma a doppio taglio perché rischia di offrire una sponda istituzionale alle forze clandestine.
Quale che sia però l'esito della guerriglia, è sempre più evidente che negli Stati uniti nessuno sa più come uscire dalla trappola irachena, né la Casa bianca, né il Pentagono, né l'opposizione pacifista. Infatti anche il movimento contro la guerra è diviso sull'opportunità di un ritiro immediato delle truppe Usa, che lascerebbe dietro di sé un Iraq a pezzi e lo getterebbe di nuovo nel caos, anzi in una guerra civile triangolare: curdi, sunniti e sciiti, tutti contro tutti. Al mondo gli Stati uniti offrirebbero così quest'immagine: arroganti che arrivano, bombardano, ammazzano, sfasciano e se ne vanno.
Ma è per la Casa bianca che lo scenario è più fosco. Intanto, un prolungarsi dello sforzo in Iraq inevitabilmente distoglie forze dall'Afghanistan, altra regione in cui la guerriglia antiamericana si sta intensificando.
Il dato più grave è però che, se anche domassero la guerriglia, gli Usa si troverebbero pur sempre incastrati. Non possono introdurre una vera e propria democrazia elettiva, perché in un voto nazionale la maggioranza andrebbe agli sciiti che sono antiamericani e pericolosamente affini al regime iraniano. Non possono dividere l'Iraq in tre stati (curdo, sunnita e sciita) perché, per timore di contraccolpi interni, Turchia e Iran non permetterebbero mai la creazione di uno stato curdo. Ciò di cui gli Stati uniti avrebbero bisogno è una bella dittatura, stavolta filoamericana, ma questa soluzione è impresentabile alla comunità internazionale: e Washington sta constatando che l'unilateralismo è molto costoso, in dollari e in vite.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …