Marco D'Eramo: Ripresa con declino per l'economia Usa

14 Novembre 2003
All'incrocio tra Broadway e la 59-a strada, dove inizia Central Park, si erge una coppia di giganteschi grattacieli dalle linee sia spezzate sia arrotondate, tutti avvolti nel vetro che luccica al sole. Ma, per quanto gli edifici siano ormai già terminati, le facciate sono costellate da buchi di finestre non vetrate, tappate da pannelli di compensato, come nei palazzoni diroccati dei ghetti neri. Come se all'ultimo minuto fossero mancati i soldi per i ritocchi definitivi di questa faraonica struttura. E forse è proprio così, perché questi grattacieli gemelli furono voluti per celebrare le nozze tra Aol (America on Line) e Time Warner, sponsali che avrebbero dovuto generare la più grande compagnia integrata d'informatica, informazione e spettacolo. Ma la fusione è finita come i pannelli di compensato che crivellano la superficie splendente. In un certo senso è un po' come tutta l'economia americana. Non solo nel terzo trimestre il Prodotto interno lordo (Pil) è cresciuto allo stupefacente ritmo del 7,2 % annuo, ma, per la prima volta da 3 anni, insieme alla crescita, sono positivi i dati di tre mesi consecutivi sull'occupazione. È questa la facciata splendente dell'economia Usa, tanto che ora l'amministrazione Bush si auto-esalta e considera queste cifre come la controprova che gli immani tagli fiscali degli ultimi tre anni hanno davvero rilanciato l'economia. I democratici invece ripetono che, comunque sia, fino a oggi, la politica repubblicana ha creato 3 milioni di disoccupati in più: e queste sarebbero le finestre tappate col legno. Il fatto è che la situazione è fluida e richiede uno sguardo non convenzionale, come è quello di Doug Henwood, un passato come studioso di letteratura, prima di dedicarsi all'economia politica e di fondare, nel 1986 l'unico bollettino finanziario di sinistra che esista negli Usa, il Left Business Observer, 3.500 abbonati, molti assai influenti. Henwood è anche commentatore economico alla radio e al settimanale The Nation. Nel 1994 ha pubblicato presso Simon & Schuster un atlante sociale degli Stati uniti, The State of the USA. Nel 1997 ebbe molto successo il suo libro Wall Street (edito da Verso) e in questi giorni sta uscendo After the New Economy, presso la New Press

Come considera queste cifre sull'occupazione?
Una crescita c'è stata, e per tre mesi consecutivi: il tasso di disoccupazione è passato dal 6,4% in luglio al 6,0% in ottobre; in questi tre mesi sono stati creati 289.000 posti di lavoro; per la prima volta da fine 2000, è aumentato il numero complessivo di ore lavorate. Ma anche nel 2002 l'occupazione era aumentata quattro tre mesi (di 205.000 unità) per poi ripiombare a picco. Stavolta sembra diverso, perché l'anno scorso la ripresa era dovuta alla ricostituzione delle scorte, che erano state prosciugate. Mentre quest'anno c'è una crescita sia delle esportazioni, sia del consumo, soprattutto di beni durevoli. Ma era scontato che, da un momento all'altro, con la valanga di soldi messa in circolazione dall'amministrazione Bush, una ripresa ci sarebbe stata: 500 miliardi di dollari di deficit, un bilancio della difesa di 400 miliardi di dollari, un po' di stimolo all'economia lo dovevano pur dare. È il contraccolpo immediato del taglio delle tasse che ha rimesso in tasca agli americani soldi da spendere, e alla politica dei bassissimi tassi d'interesse della Federal Reserve (la Fed) che ha permesso di ripianare i mutui sulle case e di accendere nuovi debiti.

C'è qualcosa che non funziona: per due anni gli economisti di sinistra hanno detto che i tagli fiscali di George W. Bush non avrebbero fatto da stimolo perché vanno a vantaggio dei ricchi, già dotati di tutti i comfort, e che perciò i soldi li mettono in banca, non li spendono e neanche li investono, visto che i macchinari sono già sottoutilizzati. Adesso invece dite che con questi tagli una ripresa era inevitabile.
Con una crescita del 7% uno s'immaginerebbe una crescita dell'occupazione molto più consistente. Tanto più partiamo da tre milioni di posti di lavoro in meno. Tenga conto del fatto che, vista la crescita della popolazione statunitense in età lavorativa, soltanto per mantenere stabile il livello attuale di disoccupazione, a lungo termine bisognerebbe creare ogni mese 135.000 posti di lavoro, mentre a ottobre, il mese migliore, i nuovi posti di lavoro sono stati "solo" 126.000, cioè meno di quelli necessari al ricambio. Questa ripresa è straordinariamente avara di nuovi posti di lavoro. E poi bisogna vedere se dura e quanto dura. Un mese buono non costituisce una tendenza. Già a ottobre le vendite di automobili sono di nuovo diminuite e quelle al dettaglio sono state fiacche. Comunque i dati di ottobre sono la migliore notizia che abbiamo avuto da un paio d'anni a questa parte.

C'è chi dice che per creare davvero un'ondata di posti di lavoro, bisognerebbe ridurre la produttività.
Secondo me le cifre sugli aumenti di produttività sono esagerate perché fanno un sacco di assunzioni false. Per esempio si assume che i colletti bianchi lavorino 35 ore la settimana, mentre lavorano molto di più. Non si tiene conto del fatto che per mantenere un salario uguale a quello precedente, in molti settori bisogna fare gli straordinari. I salari non hanno seguito il ritmo dell'inflazione. C'è gente che deve fare due lavori per guadagnare quanto prima con uno. Per i padroni è positivo, perché ottengono lavoro quasi gratis, e in questo preciso senso la produttività è forte.
E poi negli ultimi due anni il processo di deindustrializzazione degli Stati uniti si è accelerato: 39 mesi consecutivi di perdita di posti, sono andati persi 2,8 milioni di posti di lavoro manifatturieri. E quei posti nell'industria erano ben pagati, con la copertura sanitaria. Invece chi trova lavoro oggi lo trova nei servizi, nel precario, nei posti malpagati, senza copertura sanitaria né contributi per la pensione. Gente che lavorava nell'high tech si ritrova a fare il commesso da 7-Eleven o da McDonald's. Il clima economico in cui ci troviamo è paragonabile a quello degli anni `70, della prima grande deindustrializzazione dell'America: anche allora ci furono periodi di ripresa, ma complessivamente fu un periodo di declino fino ai primi anni `80, poi c'è stato il boom dei secondi anni `90.

Il bilancio del Pentagono è ormai di 400 miliardi di dollari. È una riedizione del militarkeynesismo? Alla fine non creerà proprio un sacco di posti nell'industria degli armamenti?
Certo nel secondo trimestre le commesse militari sono cresciute a un ritmo annuo del 45%, il più forte incremento dal 1951. Ma nei vecchi tempi la spesa andava in camion, jeeps, flotte di aerei, flotte di navi. Adesso è molto più ipertecnologica, ad alta intensità di capitale e a bassa intensità di lavoro E poi gran parte dell'aumento del secondo trimestre è andata in servizi di appoggio, in logistica all'Iraq, il che vuol dire che quei soldi dello stato erano stati incassati negli Usa ma sono stati spesi in Iraq.

Ha detto che parte della crescita è dovuta alla politica del presidente della Fed, Alan Greenspan, che tiene i tassi d'interesse a un livello stracciato. Ma per quanto ancora potrà mantenerli così bassi?
Greenspan ha parlato proprio la settimana scorsa per dire che almeno per un po' continuerà a mantenerli bassi. Con i salari reali che diminuiscono, visto che la loro crescita è dello 0%, non ci sono in vista seri pericoli d'inflazione, quindi per adesso non c'è motivo di alzarli. Certo è che se, fra quattro mesi da adesso, l'occupazione avrà continuato a crescere, la ripresa si sarà protratta, allora si eserciterà una pressione sui salari e la Fed potrà alzare i tassi. E poi c'è il mercato dei buoni del tesoro, dei Federal Bonds, che sta diventando nervoso con il deficit di bilancio di Bush: se Greenspan alza il tasso di sconto, subito i rendimenti dei Bonds salgono, e con loro gli interessi dei mutui. Sia le famiglie, sia le imprese sono sovra-indebitate, ma con interessi bassi il loro servizio del debito è finora gestibile. Invece, se devono pagare interessi più alti, diventa insostenibile. Non solo, ma le famiglie sono impossibilitate a spendere in consumi, durevoli o meno. Nel mercato edilizio siamo nel territorio della bolla: se si alzano i tassi e la bolla scoppia, sono guai. In un certo senso la Fed è costretta a mantenere i tassi bassissimi per non far saltare tutto il sistema che è basato sull'indebitamento di tutti, famiglie, corporations e stato. L'intera struttura finanziaria degli Stati uniti si regge solo grazie a tassi d'interesse bassissimi.

Come si esce da questo giro vizioso?
Un giorno o l'altro dovremo pure uscirne, ma sono vent'anni che ci diciamo che il debito sta diventando insostenibile, quindi può durare ancora per un bel po'. Il fatto è che siamo entrati in un periodo di economia debole, simile a quella degli anni `70, con dei brevi picchi di ripresa ma in sostanza statica. Non vi sono settori trainanti come sono stati l'auto, gli elettrodomestici o, negli anni `90, computer e telefonia. Un sacco di posti di lavoro ad alta tecnologia si stanno trasferendo in India. A Wall Street pensano che siamo in una situazione normale, che a un ciclo recessivo succederà uno di ripresa, ma non è così, sono brevi fiammate di crescita. Il boom di borsa degli anni `90 è fuori dal nostro orizzonte, anche perché il rapporto fra prezzo delle azioni e performance delle imprese è ancora svantaggioso. A mio avviso in Borsa la fase dell'orso è destinata a durare ancora.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …