Riotta Gianni: I fronti di Bush

14 Novembre 2003
New York - I missili che hanno colpito nel Giorno dei Morti l' elicottero Chinook sul villaggio di Hasi, a sud di Falluja, capitale della guerriglia, avevano tre bersagli. Il primo, centrato con almeno sedici morti e venti feriti, era il velivolo Usa, che portava in licenza un gruppo di militari e il colpo è andato a segno con ferocia. Il secondo era l' opinione pubblica americana, alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2004, in calendario tra dodici mesi. Le bare rimandate a casa, anziché ragazzi vivi a far festa, sconvolgono. Terzo obiettivo dei terroristi è quel che resta dell' Occidente dopo la débâcle di primavera alle Nazioni Unite e la scelta di Germania e Francia di non versare neppure un centesimo simbolico per la ricostruzione dell' Iraq alla Conferenza di Madrid, lasciando gli americani da soli. Una scelta drammatica che l' Europa sottovaluta ma che in America ha portato due osservatori come Tom Friedman, campione dell' ottimismo progressista, e Henry Kissinger, mandarino conservatore della realpolitik, a concordare: l' Occidente è morto, l' Occidente come lo abbiamo conosciuto dal 1945 non esiste più. Il due novembre è il giorno più sanguinoso per gli americani dalla caduta del regime di Saddam Hussein e da quando il presidente George W. Bush, frettolosamente, ha dichiarato le ostilità chiuse durante una cerimonia di propaganda. La vignetta di un giornale locale, la Green Bay Press Gazette, mostra una coppia di coniugi americani, che guardano perplessi la televisione, con il mezzobusto che recita: «Anche oggi, cari telespettatori, 115.789 soldati non sono morti in Iraq. Scusatemi 115.788... cioè 115.787... pardon 115.786... volevo dire 111.785» e la moglie perplessa: «Beh, dopotutto siamo stati noi a chiedere buone notizie». La battuta di Joe Heller condensa l' umore di un' opinione pubblica che vorrebbe sollievo e invece riceve dal campo amarezze. Che cosa non funziona? Il piano di invasione americano era flessibile, ma i progetti per il dopoguerra si sono rivelati incompleti e dilettanteschi. Le continue camarille e polemiche tra Pentagono, il ministero della Difesa, e Dipartimento di Stato, gli Esteri, solo tardivamente composte assegnando alla consigliera per la Sicurezza nazionale Condoleezza Rice il ruolo di arbitro (sarà all' altezza?) hanno impedito agli aiuti di arrivare in modo fluido e messo agli angoli tutto quanto funziona (e non è poco) in Iraq, nutrendo il malcontento, foraggio per la guerriglia. La macchina militare americana funziona secondo il codice stabilito dal presidente Lincoln e dal suo fidato generale, e futuro presidente, Grant, nella guerra civile: una macchina formidabile per uomini e mezzi che, con una strategia di attrito, logora il nemico. Così il Nord unionista batté il Sud confederato, così gli americani combatterono per l' intera Seconda guerra mondiale. E così decisero di lottare durante la guerra in Vietnam malgrado i tattici più brillanti, come John Paul Vann, avessero sfidato il generale Westmoreland, spiegando che non si va a caccia di virus con un fucile a pallettoni. La stessa difficoltà impania adesso l' esercito Usa. L' aeroporto di Bagdad, destinazione finale per il Chinook perduto, non può funzionare, perché minacciato da missili terra aria come quello che ha fatto strage ieri, forse un SA-7 di fabbricazione russa. Le strade sono minate, anche ieri altri agguati con vittime, l' esercito della coalizione è asserragliato nelle basi e non può svolgere il ruolo di pacificazione necessario. Ieri il New York Times ha anticipato un terzo cambio di direzione per gli uomini dell' Autorità provvisoria di Paul Bremer: la Casa Bianca avrebbe accettato di ricomporre le vecchie divisioni dell' esercito iracheno, per tenere l' ordine, mentre la 82esima divisione aerotrasportata e la IV divisione di fanteria si impegnano contro Saddam, i reduci del Baath e l' armata fantasma della guerriglia terrorista. Era il piano originale del primo reggente Usa, il generale Jay Garner, subito messo in soffitta dal suo successore Bremer, che licenziò i veterani di Saddam, creando in un giorno una schiera malmostosa di ribelli disoccupati. Adesso si torna indietro, per ridare stipendio e ruolo ai militari, sperando di sottrarli alla chiamata alle armi baathista. Troppo tardi? Ieri a Falluja un contadino esultava: «Americani porci. Festeggio questi morti, gli americani sono nemici del genere umano». E un suo connazionale felice: «Dopo il digiuno del Ramadan arriva la festa di Eid, ma con la caduta dell' elicottero stavolta la festa di Eid arriva in pieno Ramadan». Il tempo necessario agli americani per conquistare il consenso degli iracheni - e non sono pochi quelli che hanno applaudito la sconfitta di Saddam - scorre via inesorabile. O la strategia militare cambia presto, con l' arrivo di forze multinazionali e una vera collaborazione popolare, o la guerriglia diventa guerra aperta. E qui si apre il secondo fronte, la reazione emotiva degli americani. Pochi giorni fa erano arrivate buone notizie per il presidente Bush, in cerca di rielezione. L' economia cresce al ritmo di 7,2% nell' ultimo trimestre, e il destino del padre George Bush, sconfitto da Clinton nel ' 92 complice una brusca recessione, sembra evitabile. Il sangue in Iraq rimette tutto in gioco e ieri la prima pagina del quotidiano Washington Post sintetizzava lo stallo. Gli americani sono divisi come nel novembre di tre anni fa, quando diedero la maggioranza popolare al democratico Al Gore e la Casa Bianca - grazie al meccanismo elettorale - a George W. Bush. Svanito l' effetto 11 settembre, e il calore per la vittoria in Iraq, oggi il 48% dei cittadini pensa di confermare Bush, mentre il 47% sceglie lo sfidante democratico (ma manca passione ancora per un singolo campione democratico), incerto il 5%. Bush è, insomma, dov' era alla partenza, giù dal tetto del 90% seguito alla caduta di Kabul, nel 2001. E' la guerra al terrorismo il suo atout, una maggioranza del 63% lo sostiene, ma solo il 47% e il 45% approvano rispettivamente la sua politica in Iraq e per l' economia. Gli dice sì la sua base elettorale e basta, non una partenza sicura per la Casa Bianca 2004. Chi non ama il presidente Bush (in America lo studioso Chomsky lo ha definito «il peggiore da sempre» mentre un editorialista della New Republic ha ammesso «Odio Bush») ha di che essere lieto, per ora. Ma sarebbe una tragedia identificare il giudizio su Bush con la sorte della guerra in Iraq, come sembrano fare non solo gli arrabbiati no global, ma anche le diplomazie di Parigi e Berlino. Anche i candidati democratici, da Howard Dean al generale Wesley Clark, sono consapevoli che fuggire oggi da Bagdad consegnerebbe l' Iraq ai fondamentalisti, facendone un Afghanistan in stile talebano, anarchia violenta, ma con il controllo del mercato petrolifero. Le democrazie occidentali, spesso detestate nei caffè europei, nelle madrasse, le scuole islamiche, e nei campus universitari americani, non hanno più una strategia comune. Comunque la pensiate su Bush è una situazione pericolosa: e stabilizzare l' Iraq, dal Giorno dei Morti a Pasqua di Resurrezione, dovrebbe essere impegno condiviso. Non vedere questa realtà scava una comune, agghiacciante, trappola di cui il missile SA-7 a Falluja è solo un anticipo.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …