Marco D'Eramo: L'America nel tunnel dei neocons

02 Dicembre 2003
Chiamati think tanks (letteralmente "serbatoi di pensiero"), i centri studi di Washington esercitano un peso sulla politica statunitense che in Europa è di gran lunga sottovalutato. Negli ultimi anni si è parlato soprattutto dei think tanks conservatori, come Heritage Foundation e Hoover Institute, e in particolare di quelli definiti "neo conservatori", termine abbreviato in inglese con neocons, come American Enterprise Institute, che hanno beneficiato di un'enorme fonte di finanziamenti e che hanno visto i loro esponenti occupare posizioni di rilievo nell'amministrazione Bush. Dalla fine degli anni `70 questi think tanks conservatori hanno avuto un ruolo decisivo nel ribaltare il senso comune americano e nel diffondere un'ideologia ultraliberista, ultrareazionaria. Di fronte a questi colossi, i centri studi liberal - come l'Institute for America's Future - o di sinistra - come l'Institute for Policy Studies dei nostri amici Marcus Raskin e Jim Cavanagh - hanno sempre fatto la figura dei parenti poveri. Adesso però il partito democratico si è accorto di essere rimasto indietro in questo settore nevralgico e ha investito in modo serio in un nuovo think tank, il Center for American Progress, che - come dice il nome - si situa nell'area genericamente "progressista". La collocazione del Centro risulta chiara dalla figura del suo presidente, John Podesta, che per due anni e mezzo è stato uno degli uomini più potenti degli Stati uniti, visto che dall'ottobre 1998 al gennaio 2001 è stato, sotto Bill Clinton, capo dello staff della Casa Bianca (una carica ancor più influente del nostro segretario generale della presidenza della repubblica). Ma fin dall'insediamento di Bill Clinton nel gennaio 1993, John Podesta aveva fatto parte del suo circolo più stretto: dal 1993 al 1995 era stato consigliere del presidente e segretario dello staff. Dal 1997 al 1998 era stato vice-capo dello staff (dal 1995 al 1996 si era invece allontanato dalla Casa Bianca per essere consigliere del leader del senato Thomas Daschle). Quest'avvocato di formazione, originario di Chicago, sulla cinquantina, è perciò un clintoniano di ferro e la sua posizione, analoga a quella dei nostri dalemiani, risulta chiara, con tutti i suoi limiti, dall'intervista telefonica che segue.

Può descrivere gli scopi per cui avete creato il Center for American Progress?
Le voci conservatrici si sono fatte sentire molto più forti a Washington, in parte perché i conservatori hanno investito molto più pesantemente nell'infrastruttura dell'azione politica, non solo finanziando le analisi politiche ma facendo un marketing più aggressivo e diffondendo le proprie idee nelle tv, nei talk-shows, nelle radio, sui giornali.

Intende il successo dei neo cons?
Il successo sia dei paleo cons che dei neo cons. Nel corso degli anni `90 le fondazioni conservatrici hanno finanziato con più di un miliardo di dollari i think tanks di destra con sede a Washington, per dirottare il dibattito e portare il paese su una china di estrema destra. Il proposito del Centro è di fare analisi a lungo termine e nello stesso tempo di formulare una critica vigorosa di questa politica conservatrice che sta portando non solo l'America ma anche il mondo in una direzione sbagliata, e infine di compiere uno sforzo sostanziale per coinvolgere il pubblico nel dibattito con un marketing sia delle nostre idee sia delle nostre critiche attraverso Internet, tv, radio, giornali.

Come definirebbe l'attuale politica statunitense?
Abbiamo un'amministrazione che sia in politica estera, sia in politica economica ha spostato il paese fuori dal centro verso una posizione conservatrice radicale: persegue una politica economica che favorisce solo gli americani più ricchi a spese della middle class (che negli Usa non coincide con la nostra "classe media" perché comprende anche gli operai, n.d.r.) che ha creato un deficit pubblico pari al 5% del Prodotto interno lordo che porterà a tagliare programmi progressisti di welfare e di sostegno della sanità e dell'istruzione. In politica estera quest'amministrazione sta mettendo in pratica l'ordine del giorno neo conservatore, di unilateralismo e di guerra preventiva, che costituisce un netto allontanamento da quello che in politica estera è stato un consenso bipartisan negli Stati uniti dalla fine della seconda guerra mondiale in poi.

Qual è la sua posizione personale sull'Iraq e quali sono le sue previsioni per il futuro?
La maggioranza della gente di questo paese sarebbe d'accordo nel dire che valeva la pena di liberarsi di Saddam Hussein. D'altro canto, la gestione della guerra, e particolarmente il fallimento della pianificazione per il dopoguerra, dopo che la guerra era stata vinta, è messa fortemente in discussione, insieme alla manipolazione, da parte del presidente e dell'amministrazione, delle informazioni dei servizi nel farci credere che la minaccia posta da Saddam fosse imminente. Con tutti i benefici del dubbio, quest'amministrazione ci ha infilato in un tunnel profondo. Ciò detto, ora la questione che mi interessa è come possiamo uscirne fuori, e per farlo dobbiamo creare le circostanze per un maggiore impegno degli altri paesi, per un allargamento della partecipazione internazionale sia alla stabilizzazione dell'Iraq, sia alla sua ricostruzione. E l'attuale amministrazione è invece molto confusa sia nella strategia, sia negli scopi, e ha commesso un sacco di errori prendendo decisioni più per motivi ideologici che per ragioni di pianificazione.

Non pensa che parte della forza dei neoconservatori sia dovuta alla debolezza e alla confusione in campo democratico?
Uno degli scopi che dobbiamo raggiungere è fornire un'analisi più chiara e una critica più affilata: un'analisi più chiara sulla direzione in cui dovrebbe andare il nostro paese e una critica più affilata di che cosa sono i conservatori. Ma non c'è dubbio che nell'ultimo paio di anni il pubblico non ha ricevuto un chiaro senso della direzione da prendere da parte dei progressisti e dei democratici.

Non le pare che i democratici si siano lasciati ingabbiare troppo facilmente nella trappola del patriottismo?
Intanto è molto difficile far sentire la proprio voce contro un presidente che ha dalla sua i megafoni e gli altoparlanti di cui dispone la Casa Bianca. In parte ciò ha a che vedere con il processo di scelta di un contendente per la presidenza, ma in parte è dovuto all'incapacità da parte del centrosinistra di esporre argomenti efficaci, soprattutto in politica estera, che trovassero una risonanza nel popolo americano. Torniamo sempre alla necessità di avere nuove idee, idee migliori, su dove il paese deve andare, di affilare la critica e di alzare la voce.

Ma il fatto che ci siano ben nove pretendenti alla nomination di candidato alla Casa bianca non è un segno di confusione tra le file democratiche?
Fa parte del processo di scelta dei candidati. Mano mano che si terranno le varie primarie e le varie assemblee, il gruppo dei pretendenti si sfoltirà e sarà più chiara la direzione in cui andare.

Perché le persone vicine a Bill Clinton hanno appoggiato e appoggiano la candidatura del generale Wesley Clark?
Perché molto persone che lavoravano nell'amministrazione Clinton si sono guardate intorno alla ricerca di candidati in grado di catturare voti, e molti di loro che conoscevano il generale Clark al tempo in cui era comandante supremo della Nato, lo rispettavano, rispettavano la sua intelligenza e il fatto che è qualcuno che capiva davvero e che da quella posizione agiva con autorità militare ma anche con chiare qualità diplomatiche, e aveva molti amici...

Anche molti nemici...
Sì, qualche nemico, ma i molti amici vicini all'amministrazione Clinton hanno spinto forte per la sua candidatura. L'altro fattore del generale Clark è che, come Clinton, è una candidatura basata sulle idee, non sull'appartenenza di partito e poi, dal punto di vista ideologico può essere attraente per quell'elettorato che aveva votato Clinton in quanto "nuovo democratico", e quindi più efficace al centro. Per questa porzione di elettorato il generale Clark può essere più attraente di Howard Dean che non ha gestito in modo molto di sinistra il Vermont quando ne era governatore, ma che ora sta conducendo una campagna molto di sinistra.

Non mi pare però che Clark sia in grado di suscitare un grande entusiasmo nello zoccolo duro del Partito democratico: i sindacati, i neri, le donne. Da questo punto di vista potrebbe essere un buon vicepresidente in un eventuale ticket guidato da Dean.
Non c'è dubbio che il governatore Dean deve essere descritto come il front runner della campagna, ma è chiaro che un ticket composto dai due richiamerebbe sia la frangia elettorale più legata ai valori democratici tradizionali, sia quelli che possono essere definiti swing voters, gli elettori ballerini.

Negli ultimi tre mesi la situazione economica è migliorata. Questo fattore come cambierà la strategia della campagna elettorale?
Penso che il presidente Bush abbia ottenuto un rilancio di breve periodo, come risultato dell'effetto combinato dei bassissimi tassi d'interesse e dello stimolo che ha immesso nell'economia attraverso i tagli delle tasse. Ma il quadro a lungo termine è parecchio fosco. E inoltre, anche se si guarda al breve termine, i salari reali della middle class sono diminuiti, la disoccupazione è ancora alta, ed è quasi sicuro che Bush si ritrovi ad essere il primo presidente dopo Herbert Hoover (che guidò gli Usa durante la grande recessione del 1929, n.d.r.) a finire il suo primo mandato con una perdita netta di posti di lavoro. Questo è solo un rilancio causato dallo stimolo prodotto da un enorme deficit di bilancio, ma a lungo termine ha sottoposto a un'enorme pressione sia lo stato sia la capacità di attuare una politica economica in termini positivi. Quindi la critica alla politica economica di Bush è ancora fortissima. E qualunque sarà il candidato democratico, sono sicuro che espliciterà con decisione questa critica.

È stato difficile per lei riciclarsi da capo dello staff della Casa bianca a direttore di un think tank?
Dalla fine dell'amministrazione Clinton ho insegnato alla Law School (facoltà di giurisprudenza) della Georgetown University di Washington, devo dire con molto piacere, ma è giunto il momento in cui era di nuovo importante cercare di rinvigorire il dibattito tematico tra conservatori e progressisti, liberal, il centrosinistra se vuole, e c'era molta gente che m'incoraggiava, e così sono stato felice di varare questo centro.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …