Marco D'Eramo: Hercule Poirot non abita più qui

13 Gennaio 2004
C'è da chiedersi perché per la loro nuova bella schedatura, gli Stati uniti usino ancora le impronte digitali, che sono una tecnologia vecchiotta, per non dire superata dalle impronte della retina o dal prelievo del Dna. La storia delle impronte digitali coincide con quel processo di "identificazione" delle persone che Michel Foucault ha catalogato come la "creazione dell'individuo da parte dei poteri disciplinari": libretto sanitario, libretto scolastico, casellario giudiziario, carta d'identità (quest'ultima assai moderna: in Italia risale solo al fascismo e alle leggi del 1931). Le prime tecniche d'identificazione risalgono non a caso alla nascita della prigione moderna, quando vengono prese le prime foto (o dagherrotipi) dei criminali arrestati: allora circolavano libri con le foto dei rei, che gli inquirenti sfogliavano alla ricerca di recidive. Poi vi furono le misurazioni anatomiche del francese Alphonse Bertillon. Specialisti di psichiatria criminale come Cesare Lombroso tentarono la via delle misure del cranio.
Ma già nel 1883 lo scrittore Mark Twain fa risolvere un delitto per mezzo delle impronte digitali, i cui caratteri distintivi vengono catalogati nel 1888 dall'inglese Sir Francis Galton (cugino di Charles Darwin). Da allora la diffusione di questo sistema è rapidissima: nel 1903 sono obbligatorie nel sistema carcerario dello stato di New York.
Come tutti gli altri strumenti d'identificazione, le impronte vengono rilevate prima alla sola popolazione carceraria, poi anche agli arrestati, poi ai coscritti di leva (le impronte sono introdotte nell'esercito Usa nel 1905). Fino a poco tempo fa le impronte venivano rilevate manualmente, facendo premere i polpastrelli delle dita su un tampone imbevuto d'inchiostro e poi trasferendole sulla scheda. Il curioso, nella nuova procedura Usa, è che, per la prima volta, le impronte sono "digitali" in un duplice senso, perché sono impronte delle "dita", e perché sono rilevate con uno scanner e registrate con tecnologia "digitale" (dall'inglese digit, che vuol dire numero): insomma la tecnologia del futuro applicata a una procedura del passato. (Anche la foto è scattata da una telecamera digitale, posta su un treppiede.)
Queste schede manuali andavano conservate e catalogate. Ed era un compito improbo, se si pensa che già nel 1946 l'Fbi aveva catalogato 100 milioni di impronte: e nel 1971 sarebbero diventate 200 milioni. Fino alla diffusione dello scanner, la matrice di queste schede era sempre cartacea, anche se poi i confronti delle impronte venivano incrociati sul computer. Ragion per cui queste schede sono ancora immagazzinate dall'Fbi in un deposito di Fairmont (West Virginia), un intero centro commerciale preso in affitto: per il momento infatti solo 33 milioni di impronte sono state digitalizzate.
Come strumento d'identificazione del cittadino comune le impronte digitali si sono rivelate utilissime. Invece, come strumento per individuare e catturare gli autori di crimini, la loro utilità è molto più problematica (il campione del Dna è molto più efficiente), se si eccettuano la letteratura e la filmografia poliziesca. Solo nei gialli, sullo schermo e nella carta, le impronte si rivelano decisive perché i vari Hercule Poirot possano smascherare abilissimi geni del crimine. Io, in tutta la mia vita non ricordo un solo caso di cronaca nera né un solo processo per omicidio il cui colpevole sia stato incastrato dalle impronte, spesso difficilmente rilevabili: senza contare quell'altro espediente diffuso nella fiction gialla che è il trapianto della pelle dei polpastrelli. C'è da supporre che anche qualche terrorista abbia letto gli stessi libracci che ho letto io.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …