Gianni Riotta: Arroganti, snob, poco amati: i media americani

17 Febbraio 2004
I miei vicini di casa entrano la mattina compunti a sbirciare la copia fresca di stampa del Corriere. Vogliono le novità sulle voci che assegnano al senatore democratico John Kerry, sfidante di George W. Bush alla Casa Bianca, un' amante giovane e carina che Internet ha battezzato Alex Polier, dandole anche una foto, brunetta sorridente. Il fascicolo del New York Times è sull' uscio già dall' alba, ma i miei amici sanno che ignora il flirt di Kerry. Da giorni la stampa e le tv Usa nascondono la vicenda, lanciata su Internet da Matt Drudge, giornalista scandalistico che denunciò per primo la liaison Bill Clinton e Monica Lewinsky. Al New York Times la spiegazione è classica: «Drudge non offre prove, parla di cronisti che si stanno occupando del caso, ma senza conferme. Non ci basta». Rigorosa e tradizionale risposta, che ignora due punti: 1) Drudge non è simpatico, il suo approccio alle notizie è gaglioffo, ma su Bill e Monica la storia ha confermato i suoi «pettegolezzi»; 2) I giornalisti, i politici, gli uomini d' affari, la Borsa, gli addetti ai lavori, i Vip sanno del caso Kerry-Polier, il rigore taglia dunque fuori solo la gente qualunque, l' opinione pubblica di base. E' lo stesso paradosso ipocrita che vige sui sondaggi nei giorni del voto. Ministri, direttori di testata, manager, sanno chi è in testa, ma la legge proibisce che l' informazione sia diffusa «al popolo», ritenuto incapace di mantenere un giudizio equilibrato davanti a notizie riservate, appannaggio dei potenti. Ecco le ragioni profonde della crisi di credibilità della stampa contemporanea, assimilata a un potere cinico e sfuggente, un' oligarchia di privilegiati che non condivide con la gente comune né cultura, né vita quotidiana, né accesso alle fonti. Negli Stati Uniti i giovani confermano nei sondaggi di informarsi più dalle gag dei comici tv che non dagli editoriali dei quotidiani. Non solo i cronisti non riscuotono più la fiducia dei politici, ma un recente studio prova che la gente crede a sindaci e parlamentari in misura maggiore che non ai giornalisti, «almeno quelli li eleggiamo». Anche Italia gli indici della fiducia nelle istituzioni del sociologo Renato Mannheimer mettono tv e carta stampata in zona retrocessione seguiti solo dal fanalino di coda Confindustria. Gli ultimi mesi hanno visto la credibilità dei politici logorarsi per la propaganda sulle armi di sterminio di massa non ritrovate in Iraq, ma senza che la stampa abbia goduto di una ritrovata fiducia. Sul caso Bbc, le forzature del cronista Gilligan contro il primo ministro inglese Tony Blair sono costate alla prestigiosa rete dimissioni e discredito. Negli Stati Uniti il commentatore di destra Robert Novak ha rivelato il nome dell' agente Cia Valerie Plame, un reato federale punibile con il carcere, pur di danneggiare il marito della signora, l' ex ambasciatore in Iraq Joe Wilson, contrario alla guerra a Bagdad. Adesso Novak si rifiuta di rivelare la fonte, quasi certamente un consigliere della Casa Bianca, che ha passato la soffiata e, per la prima volta, giornalisti e storici si schierano - giustamente - contro il segreto professionale. Novak non copre la fonte di una notizia, ma il mandante di una manovra politica di cui è complice, colpire la Plume per intimidire Wilson e i critici del presidente Bush. Come nello scoop privo delle verifiche ortodosse di Gilligan contro Blair, il cinismo di Novak pro Bush scredita i giornalisti e non basta la pruderie su Kerry a riabilitarli. Tanti ragazzi si illudono allora di poter ricevere «notizie senza filtro» da Internet e dai comici tv, fenomeno diffuso anche in Italia. Esaminate la storia del servizio militare del presidente George W. Bush. Per evitare le sanguinose risaie del Vietnam, Bush junior si arruola in fretta nella paciosa Guardia Nazionale. Grazie all' influenza del padre, parlamentare, salta la lunghissima lista d' attesa e finisce marmittone in Texas. Chiamato a far campagna elettorale per un amico, Bush salta parecchi mesi di leva, tra accuse di certificati mancanti o distrutti da un generale amico. Lo scoop è del Boston Globe, uno dei migliori giornali americani, che segue la vicenda già dalla campagna elettorale del 2000. Inutilmente: lo scoop su Bush imboscato cade nel vuoto. A sorpresa, quando il regista premio Oscar Michael Moore, a un comizio del generale Wesley Clark, trasforma un argomento raziocinante in slogan emozionante «Bush è un disertore!», tv, giornali e cittadini reagiscono, Bush è costretto a esibire documenti polverosi, ex ufficiali annunciano nuove rivelazioni. Un regista di satira che riesce dove un foglio storico ha fallito, benvenuti nel nuovo labirinto dei media. Dove il pericolo non è più solo la pressione della politica sull' informazione (male antico, velenoso di lobby e conflitti di interesse), ma l' assimilazione stessa dell' informazione al potere. Seguite l' equazione: poiché giornalisti come Gilligan, da sinistra, e Novak, da destra, distorcono la verità a fini politici, solo figure eterodosse come Moore finiscono per far colpo (il paragone italiano potrebbe essere Nanni Moretti che urla a piazza Navona). Elitaria, arrogante, commerciale, supponente, l' informazione piagnucola sull' era d' oro degli scoop perduti e non si accorge che nell' era delle notizie globali l' aggressività posticcia è inefficace e l' etica dell' equanimità torna la risorsa migliore. Mentre i giornali americani ignorano «i pettegolezzi» su Kerry-Don Giovanni, i siti Internet illustrano la questione dei codici Microsoft in dettaglio. Come sempre, in rete, il gusto del complotto si mischia ai fatti. «E' una macchinazione di Gates!», ma chi paragona la mole di dati disponibili online sulla débâcle Windows a quelli apparsi sui giornali resta sbigottito. Ultimo, clamoroso, esempio della perdita di contatto tra stampa e realtà, la candidatura dell' ex governatore Howard Dean alla Casa Bianca. A stare a giornali e telegiornali la vittoria di Dean era cosa fatta, il suo carisma ribelle era garantito dal geniale Joe Trippi, mago della campagna via Internet. Al primo voto in Iowa, Dean è tornato in soffitta, iracondo ambizioso, e Trippi, licenziato per aver incassato parcelle di consulenza che fanno impallidire i pingui contratti della Halliburton in Iraq. L' errore deriva anche stavolta dal corto circuito stampa-potere, non nella loro presunta rivalità, ma nella loro reciproca compiacenza. I giornalisti e i militanti pro Dean vivono di Internet, gli elettori comuni di televisione. Il fascino postmoderno, sarcastico, bruciante di Dean, clonato da un film del regista Tarantino, seduce i giornalisti che sognano «vite spericolate», ma non milioni di americani, attratti piuttosto dalla stabilità di Bush e Kerry. Solo sottraendosi al paternalismo nei confronti dei lettori, «non vi diciamo di Kerry e Polier, non siete maturi», e uscendo dalla giostra di interessi, valori, tic e costumi condivisi con i politici, la stampa potrebbe strappare ai comici il ruolo di «coscienza del Paese». Il nuovo giornalismo dovrebbe essere in grado di seguire non solo «gli eventi», la rincorsa fotogenica di Dean, ma anche «i processi», il lungo scavo sotterraneo di Kerry. E restituirli non solo come fredda analisi di esperti snob, ma come emozione, calore, passione razionale capace di farsi ascoltare da tutti. Per ora non si vedono i presupposti di questa nuova fase e, per gli equilibri di ogni democrazia, non è un buon auspicio.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …