Giuseppe Montesano: Forcella sospesa tra voci e macerie. Un racconto

31 Marzo 2004
È l’ora di punta e fa caldo, è il giorno dopo la morte di Annalisa, Napoli è un inferno di marciapiedi invasi da ambulanti e lavori in corso e macchine impazzite, ma quando da via Duomo intasata di traffico entro a Forcella, è come se mi cadessero addosso il buio e il freddo che sa di muffa di una cripta.
Perché ho questa sensazione di muovermi in mezzo alle macerie di una città morta, prima di un blitz che è quasi annunciato? Le saracinesche sono calate su quasi tutti i negozi, ma non è solo per la chiusura del lunedì o per il lutto: molte sono calate da tempo per «cessata attività», i negozi si sono trasferiti altrove o sono morti. La pizzeria davanti alla quale è stata colpita la ragazzina è aperta, come sono aperti tutti i bar, ma con le saracinesche non completamente sollevate. I gruppetti di persone che ciondolano fuori a un tabacchi, sul marciapiede e agli angoli di strada parlano poco. E quando provo a sentire le frasi smozzicate che lasciano cadere mi coglie uno smarrimento, perché non le capisco. Sto diventando sordo? O non capisco più il dialetto nel quale sono cresciuto?
Le facce che pronunciano questi mozziconi di parole sono chiuse, impenetrabili; molti hanno giubbotti di pelle nera, e un’aria sicura di sé, come una pietra che sa quale spazio deve occupare nel mondo; gesticolano poco, quasi non appartenessero a questo popolo. E lentamente mi accorgo che c’è qualcosa di bizzarro: per strada c’è una gran quantità di uomini di tutte le età, e pochissime donne. Sento un vuoto allo stomaco, sarà fame, e soprapensiero compro un arancino con dentro una mozzarella gommosa finendolo in fretta: solo un attimo dopo mi viene in mente che la pizzeria dove l’ho preso è quella dell’agguato. Su una grande porta murata c’è un manifesto a lettere cubitali su cui è scritto: «Chiesa chiusa dal 15/09/2001 L’Italia riapre i monumenti Quando riaprirà Sant’Agrippino?».
Continuo a scendere per via Vicaria Vecchia, e chi sa perché mi metto a fissare stupito l’insegna che sta di fronte alla casa di Annalisa: Primizie da Michele. Anche questa saracinesca è calata, qui il tempo delle primizie è lontano. Ho l’impressione che nessuno dica niente, eppure vedo muovere le labbra. I gruppetti si formano e si sciolgono lentissimamente, senza un motivo evidente, come marionette dopo la recita. Tre ragazze e una donna adulta stanno parlando del «fatto», rallento il passo per sentire: ma mi guardano e abbassano ancora di più la voce: arrivano appena dei «chillo ’o ssapeva», dei «nun è accussì», dei «è overo». Ma che cosa, «è overo»? Ho di nuovo la sensazione di chi in sogno scopre che non capisce la sua lingua natale, che è solo e straniero a casa sua.
Il 34esimo circolo didattico, con le sue assurde colonne finto greche, è deserto, la scuola da qui è andata via non da moltissimo, ma è come se questo cortile vuoto fosse abbandonato da secoli. Ma è proprio vero che qui ieri si è protestato contro la morte assurda di Annalisa? E che hanno infierito con rabbia contro la macchina del giovane Giuliano? Ora tutto questo sembra una fiaba: in giro non si vede nemmeno l’ombra di un poliziotto, le facce di tanti sono impaurite, e c’è una calma che somiglia più alla stanchezza che alla ribellione. Continuo a camminare, passo vicino a un ambulante che vende frutta, guardo dei manifesti già elettorali e poi, alla mia sinistra, in mezzo a case spappolate dall’incuria, in mezzo a intonaci circondati da tubi da terremoto, in mezzo a facciate bucate come da un bombardamento, compare a un tratto una casa talmente diversa che deve essere quella dei Giuliano: dipinta nel classico giallo napoletano con rifiniture in rosso, con le persiane di anodizzato o di ferro a proteggere le finestre e su, in cima, un terrazzo circondato da lampioncini signorili a palloncino in ferro battuto.
Alzo la testa affascinato da quei lampioncini e faccio un passo indietro per vedere meglio, quando due arance lanciate in rapida successione e che schivo per un pelo mi sfiorano la testa, una schiacciandosi sulla strada e l’altra sul muro. Un uomo che è sotto il balcone fa un gesto come a dire «e che c...!», io gli rispondo con un gesto che vorrebbe dire «mah...», e ritorno indietro. Sarà stata un’allucinazione? Un avvertimento? O che altro? Dal balcone sopra di me nessuno sgrida bambini, niente si muove, e torno rasente i muri davanti alla casa di Annalisa. Là le macchine si ingorgano ma come se passassero di notte per vie fuori mano, e di nuovo sento di essere un estraneo perduto in una città morta. Due o tre tizi in giubbotto di pelle stendono sul cofano di una macchina i giornali, fogli scandalistici con enormi titoli e bagni di sangue e pettegolezzi: anche i giornali a Forcella sono diversi da quelli che si leggono a pochi metri da qui.
Il sole ormai è quello dell’una, ma non fa caldo: nelle città morte l’umidità è perenne. Se provo a chiedere qualcosa ricevo in cambio frasi smangiate o alzate di spalle; se mi fermo vicino al gruppetto di quelli che sfogliano i giornali, mi guardano sospettosi; il traffico cresce, ma quello che sembra invadere tutto è questo mutismo ossessivo, allarmato, assordante. Smarriti, i ragazzi di una tivù satellitare aspettano che «succeda qualcosa», ignorati da tutti. Ormai giro da più di un’ora, e da via Duomo giù giù a tutta Forcella non ho ancora visto una divisa dei carabinieri, una macchina della polizia, un vigile. Arriveranno nel pomeriggio poliziotti e carabinieri, quasi in duecento, per cercare gli assassini di Annalisa. Un assedio vero e proprio.
Ma non sono anche questi dei segnali? Qui la città che grida anche per chiedere l’ora, la città dove anche il lutto è una forma di comunicazione, sembra solo infastidita. Qui è come se non avessero mai uccisa una ragazzina, come se non fosse mai scorso del sangue, come se non fosse mai successo niente. È forse per questo che tutto sembra così irreale, è per questo che tutto ha l’aria di uno sgombero, di un abbandono totale? O forse ho sognato, forse solo io so che è morta Annalisa, e solo io avverto il brivido di chi si aggira in mezzo a macerie. Esco da Forcella e rientro nella città colorata e carnevalesca, ma nel sole che ormai mi fa sudare sento che l’ombra fredda mi insegue, ostinata. Ora intorno a me tutti parlano liberamente di Annalisa, ma con un tono di rassegnazione e un fatalismo che credevo finito per sempre, con uno sdegno che suona impotente, cupo. Fino a dove sta spargendo il suo morbo la città morta? Dove sono arrivate le macerie interiori? E dove arriveranno ancora? E mi addentro nelle voci ritrovate, nel bazar perpetuo, nel fragore come di mare, forse per stordirmi, forse per ritrovarmi: ma adesso il chiasso di questa città amata non mi riscalda e non mi piace, somiglia troppo a un silenzio assordante, somiglia troppo al suono che si sente dopo le guerre perdute.

Giuseppe Montesano

Giuseppe Montesano è nato a Napoli. Ha pubblicato due romanzi: A capofitto e Nel corpo di Napoli (Premio Napoli, Superpremio Vittorini, Premio La Torre, Premio Scommesse sul Futuro, finalista Premio …