Gianni,Riotta: L' uomo senza utopie

03 Maggio 2004
Il mondo di Lakhdar Brahimi è condensato nelle nozze di sua figlia Rym. Quando Brahimi, consigliere speciale del segretario Onu Kofi Annan, incaricato ora di negoziare un governo per l' Iraq, s' è presentato, commosso come tutti i padri, al matrimonio della figlia Rym tutta la sua cultura gli è balenata davanti. Perché Rym Brahimi, una brava giornalista dell' ubiquo canale televisivo americano Cnn, s' è sposata con il principe Ali di Giordania, fratello di Re Abdallah. La tradizione delle dinastie arabe unita a Cnn, il centralino del mondo. Entro il 30 giugno Lakhdar Brahimi deve assemblare un governo capace di avviare la transizione dopo Saddam Hussein, per ora ferma nel sangue di Najaf e Falluja, un incarico che è costato la vita al suo predecessore, Sergio Vieira de Mello. "Quando volo in elicottero su Bagdad, quando sento i razzi e so che possono spararli a me ho paura" dice senza rossori Brahimi. Un paio di amici gli hanno regalato la maglietta con il volto dell' attore Harvey Keitel, che nel film di Tarantino "Pulp Fiction" dice secco "Sono Wolf, risolvo problemi". Problemi Brahimi ha provato a risolverne di tali che il mitico Wolf avrebbe dato forfait. Inviato Onu ad Haiti 1994 con i machete che lampeggiano tra le baracche, in Sud Africa, 1993, con l' ex galeotto Nelson Mandela che deve prendere il potere tra le minacce dei razzisti. E via via missioni in Congo, ad assistere al genocidio, Yemen, nido di Al Qaeda, Liberia, tra miseria e traffici, Nigeria, petrolio e povertà e Sudan, altra guerra civile. Infine Afghanistan, prima e dopo l' avvento del regime talebano, passando dal Libano, per interrompere 17 anni di guerra civile. "Lakhdar è l' uomo adatto a voltare pagina nei Paesi distrutti - dice ridendo un diplomatico suo amico - non a caso è nato il giorno di Capodanno del 1934, ha il destino di ricominciare nell' anagrafe". Brahimi debutta ai tempi della guerra di liberazione in Algeria, fa da ambasciatore dei ribelli nel Sud-Est asiatico e, dopo una serie di ambasciate, diventa ministro degli Esteri algerino nel 1991. Durante la mattanza che accompagna la mobilitazione islamica contro il regime del Fln, repressa nel sangue. Brahimi non si fa illusioni su democrazia e diplomazia. I suoi critici ne lamentano il realismo ai limiti del cinismo, i suoi estimatori ne esaltano il realismo e la pazienza sovrumana. La carriera di Brahimi offre argomenti ad entrambi. È la sua capacità da negoziatore raffinato che gli permette di uscire dall' odio del Sud Africa portando all' intesa Mandela e la minoranza bianca. Ed è la sua durezza nel non alzarsi mai dal tavolo della trattativa, neppure quando gli interlocutori gettano la spugna, a fargli varare la Costituzione in Afghanistan e a insediare il presidente Karzai. Questo successo convince il presidente George Bush a sospendere la sua diffidenza per l' Onu e a offrire l' incarico di comporre il governo iracheno a Brahimi. Ad invitarlo a Washington, con il consenso del suo amico Kofi Annan, è Robert Blackwill, esperto di Iraq alla Casa Bianca, ma quando Brahimi arriva si trova davanti quelle che il premier israeliano Ariel Sharon chiama "le più belle gambe della politica estera", la consigliere Condoleezza Rice. Poi arriva Powell e infine cena per tutti con Bush e la First Lady Laura. Un onore del genere si deve alle difficoltà che gli americani incontrano sul campo a Bagdad. Davanti a un aspro anno elettorale, Bush spera che la flemma araba di Brahimi avvii una soluzione. Il piano che Brahimi stila nei suoi primi giorni è minimalista: lista di governo entro i primi di maggio, formata solo da tecnocrati che giurino di non presentarsi alle elezioni del 2005, un presidente e due vice che bilancino sunniti, sciiti e curdi, potere amministrativo e non legislativo, come chiesto dall' ayatollah Ali al Sistani, che finora ha preferito trattare con Brahimi non di persona, ma via il suo figliolo più esperto. Quel che Brahimi pensa della missione lo si deduce dalle memorie peggiori di Kabul nel dopoguerra: "Non è che gli americani mi amassero, o amassero quel che proponevo, ma non avevano alternative". Di nuovo, a Bagdad, gli americani non hanno alternative e chiamano Brahimi, sunnita, laico, ex vicesegretario della Lega Araba dal 1989 al 1991. La franchezza non gli fa difetto e le sue dichiarazioni sollevano clamore mondiale: in un' intervista a France Inter, Brahimi accusa Israele di "spargere veleno nel Medio Oriente" maltrattando i palestinesi. Annan prende le distanze, "Brahimi parla a titolo personale", ma lui rilancia: che Israele avveleni il Medio Oriente "non è la mia opinione, ma un fatto". E, alla rete tv americana Abc, Brahimi incalza: "Non c' è mai una soluzione militare, a nessun problema". Il quotidiano Jerusalem Post lo accusa in un titolo "antisemita", un commento di Newsday ironizza "La guerriglia algerina contro i francesi cui Brahimi si unì, era o no una soluzione militare?". Un collega di Brahimi scuote il capo: "Ho fatto con lui notti intere di negoziato e non gli ho mai visto alzare la voce. Lakhdar sa che non gli serve ora il plauso dei giornalisti in camicia inamidata, ma la fiducia degli iracheni, inclusi i più violenti. Le battute contro Israele e l' esercito Usa gli fanno guadagnare punti tra gli assediati di Falluja e di Najaf: le fa apposta". Al Jazira, la tv araba militante, abbocca all' amo panarabo di Brahimi e esulta con l' ex direttore del Centro Islamico di Washington Sam Hamod: "Il dottor Brahimi ha detto chiaramente che sono gli americani a incendiare la situazione in Iraq, arrestando senza processo, torturando, brutalizzando gente innocente, ammazzando i detenuti. Parlano di democrazia e chiudono i giornali, Brahimi lo ha denunciato senza mezzi termini. Gli attacchi a Falluja sono crimini di guerra a norma della legge internazionale, e secondo Brahimi la condotta degli Usa è un disastro, altro che democrazia!". Se il professor Hamod e Al Jazira hanno ragione, gli americani avrebbero affidato il nuovo governo a Bagdad a un clone di Saddam Hussein, un fratello di sangue dell' ayatollah ribelle Moqtada al Sadr. Possibile? Assolutamente sì, secondo i detrattori di Brahimi: Michel Aoun, ex primo ministro libanese, accusa: "Brahimi rise quando gli chiesi che garanzie mi dava che i siriani non avrebbero occupato il mio Paese. Era il 1989, sono ancora a Beirut". E un diplomatico israeliano ricorda che Brahimi era uso denunciare le sofferenze che le sanzioni Onu imponevano alla popolazione irachena, senza mai mettere a fuoco lo scandalo delle mazzette sul petrolio, pagate a Saddam Hussein sotto egida delle Nazioni Unite, un affaire miliardario su cui ora indaga l' ex governatore della Banca Centrale Usa Paul Volcker. E fino all' 11 settembre sperò di negoziare con i feroci Talebani, malgrado le loro angherie sui civili. Le polemiche fanno gola a Brahimi. Che la destra Usa lamenti il suo veto ad Ahmed Chalabi e agli altri ministri legati al Pentagono lo conforta, specie se le tv militanti arabe rilanciano gli insulti: ne ha bisogno per risultare credibile. Sedendosi davanti al Consiglio di governo a Bagdad ha detto quel che spesso ripete, affabile: "Non sono qui come inviato Onu, ma come fratello arabo". La delegazione curda, guidata da Massoud Barzani, ha capito l' antifona di "al ustaz", il professore, come tanti definiscono cerimoniosamente Brahimi. La "fratellanza araba" però non impedirà a Brahimi di colpire quando lo riterrà opportuno, come fece in Libano. Non è andato a Bagdad per avviare la democrazia, né la tolleranza, ma "navigando a vista con il mio motto di sempre: è possibile per il nostro progetto procedere in queste circostanze? Funzionerà? È credibile?". Niente utopie, niente miraggi. Come in Algeria e in Libano, Brahimi conta di fermare la guerra civile, ma non si illude in un governo democratico: "Lakhdar sa che per passare da Gengiz Khan a Gandhi occorre passare da lunghe stagioni di Nasser, oligarchie che abbiamo del consenso" dicono all' Onu. A Bagdad spera solo in questo, che il suo piano sia "fattibile" e tanto ha promesso al Consiglio di Sicurezza il sopravvissuto di mille crisi. Agli amici dice invece "poi vado in pensione" e sorride, come fa davanti a educati ministri e sanguinari signori della guerra per nascondere le sue vere intenzioni.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …