Gianni Riotta: La nuova tattica Usa: far ripartire l'economia

03 Giugno 2004
"In nessun modo le forze armate americane possono perdere la guerra in Iraq. Al tempo stesso, però, nessuna soluzione militare ci basta a vincere in Iraq": a proporre in modo così sibillino il dilemma strategico Usa non è una Cassandra da centro studi, ma il capo di Stato maggiore, generale Richard Myers. Ogni degna strategia militare deriva da una cristallina linea politica. Quando la linea politica americana per l'Iraq, abbattuto Saddam Hussein, era portare la democrazia nel Paese, l'occupazione militare aveva come scopo di battere la guerriglia Baath e snidare i terroristi infiltrati di Al Qaeda. Ora le vicende del dopoguerra, lo scandalo delle torture nel carcere e la difficoltà nella ricostruzione riducono il disegno del presidente George W. Bush, in un difficile anno elettorale, a un'occupazione che delega la gestione politica agli incaricati dal messo dell'Onu Lakhdar Brahimi, il presidente sunnita Ghazi al Yawar, e il primo ministro sciita Iyad Allawi. Nelle città disputate alla guerriglia, dalla Falluja caposaldo sunnita, alla Najaf, cittadella del leader sciita Moqtada al Sadr, la tattica militare Usa ha dapprima preso una piega somala: come a Mogadiscio si provò a catturare il capopopolo Aidid per piegare i guerriglieri, così la cattura di al Sadr e degli assassini dei tecnici americani impalati sul ponte, era simbolo di vittoria. Poi si è passati invece alla tregua, coesistenza armata a Najaf, punteggiata da morti, e delega a Falluja dell'ordine a vecchi arnesi dell'apparato di Saddam. Il ‟New York Times” annunciava ieri un cambio di punto di vista in Iraq, con l'esercito più utilizzato come genio per il sostegno all'economia e la ricostruzione delle infrastrutture, che come apparato di repressione militare. Non è una novità: da sempre il Comando a Bagdad punta l'enfasi sulle scuole restaurate, gli ospedali riaperti, perfino i campi sportivi e gli asili nido ristrutturati dal genio. Il dilemma di Myers è l'eterno rinvio dei generali ai politici: noi faremo il nostro dovere, voi dovete dirci in che direzione. Secondo lo storico John Lewis Gaddis la strategia generale del presidente Bush, provare a diffondere la democrazia in Medio Oriente, guerra preventiva contro il terrorismo se necessario, e scelta unilaterale se gli alleati non seguono, "può ancora essere valida", ma la sua applicazione tattica in Iraq s'è rivelata un disastro: "Io ho sostenuto la guerra" dice Gaddis in un seminario interno al Council on Foreign Relations di New York "ma la nostra condotta sul campo è stata penosa". Gaddis è uno dei migliori storici della Guerra Fredda, che ha definito in un suo saggio "la lunga pace", e sa che non si vince senza la pazienza strategica applicata nei confronti dell'Urss. Nell'immediato dopoguerra, il diplomatico George Kennan fissa il disegno di "contenere l'Urss" senza conflitto nucleare e da allora alla caduta del muro di Berlino otto presidenti non mutano idea, con mezzo secolo di coerenza. Bush, invece, pressato dalla scadenza elettorale di novembre che lo vede alla pari adesso con lo sfidante democratico John Kerry, sta accelerando il passaggio di consegne, previsto per il 30 giugno, e offuscando la speranza democratica cara ai neoconservatori, puntando su uno status quo che può aiutarlo nella rielezione, ma mette l'esercito sotto stress. Quando il generale George Casey, che rimpiazzerà Ricardo Sanchez matato dalle sevizie ad Abu Ghraib, prenderà possesso del suo fortino di marmo al centro di Bagdad, il suo luogotenente, generale Thomas Metz, gli proporrà di impegnarsi a far ripartire l'economia, e se il gran ayatollah Ali Al Sistani metterà la museruola a Moqtada al Sadr e i generali reduci di Saddam persuaderanno i loro accoliti a deporre le armi, per "cambiare tutto perché poco cambi", magari l'estate sarà meno frenetica della primavera. Il problema nasce però dalla natura del nemico. "Guerra al terrorismo" non definisce un'identità, ma solo il metodo di lotta usato dal nemico, come se la Seconda guerra mondiale fosse stata dichiarata contro il raid di Pearl Harbor o la guerra lampo del generale Guderian. E la strategia del nemico sta mutando. L'Iraq pare diventare la seconda linea rispetto all'Arabia Saudita. Mentre in Europa gli ingenui e i furbi continuano a confondere Iraq e guerra al terrorismo, Al Qaeda ha aperto un secondo fronte in Arabia Saudita, con impressionante lucidità. Il principale Paese produttore di petrolio è anche il solo che disponga di una riserva strategica capace di calmierare il mercato. Gli esperti di sicurezza parlano di "premio terrore", un salto di otto dollari a barile nel prezzo del greggio, fino a 50 dollari, se si diffonde sui mercati la paura di un mega attentato in Arabia Saudita. Quanto è sicuro il languido Paese retto dalla casa regnante dei Saud? Moltissimo secondo Nawaf Obaid, consigliere della famiglia reale che in un articolo sulla rivista ‟Jane 's Intelligence Review”, scrive "un attacco terroristico agli impianti petroliferi sauditi è assai difficile, il bilancio per la protezione, incluse 30.000 guardie, computer e aerei, è di cinque miliardi e mezzo di dollari l'anno". Non è persuaso invece il miglior agente Cia in Medio Oriente, Robert Baer, che nel suo volume Sleeping with the devil (Dormire con il diavolo) considera il complesso petrolifero di Abqaiq "il più vulnerabile e il più spettacolare bersaglio nel sistema economico Saudita". Secondo Baer un attacco, con un sommergibile, un aereo pirata o un barchino carico di esplosivo "potrebbe contrarre la produzione di greggio da 6,8 milioni di barili al giorno a un milione... costando presto all'America e al mondo più dell'intero embargo dell'Opec nel 1973". L'idea saudita che i soldi paghino sicurezza è gracile. Se i raid in Arabia Saudita restano sporadici e Obaid ha ragione, il dilemma del generale Myers resta l'Iraq. Se ha ragione Baer, gli toccherà guardare anche all'Arabia Saudita, il Paese in cui la sola presenza dell'esercito Usa ha generato Osama Bin Laden e Al Qaeda. E dove gli attentatori che hanno seminato morte e terrore alla base petrolifera di Khobar si sono dileguati tra la gente, pesci nell'acqua della guerra al terrorismo.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …