Marco D'Eramo: Fuga da Miami, un gigante poverissimo

04 Giugno 2004
Questa è la metropoli più povera, oltre che più latina, degli Stati uniti, mi dice Jim Mullin, direttore del settimanale alternativo ‟NewsTimes”. Certo, la città che lui mi descrive è lontanissima da quella che tratteggia il sindaco Manny Diaz: è una visione davvero "alternativa". Dietro il luccichio della città globale sede di tante multinazionali, snodo delle crociere di lusso, meta di tanto turismo, si staglia il fantasma della miseria, degli indigenti che vagano senza nulla sperare nell'entroterra, lontani dalle spiagge e dagli alberghi, in vie dalle case diroccate, scandite da banchi di pegni e negozi di liquori blindati come Fort Knox. Le ispaniche dai tratti maya, che si riparano con un ombrello dal sole cocente, in chilometrica attesa di autobus che non arrivano mai. La città è poverissima perché la classe media va via, emigra lontano a Fort Lauderdale, a Palm Beach, perché qui non trova buona istruzione per i figli: i ricchi mandano i loro rampolli nelle scuole private e quelle pubbliche sono degradate: "Questa è una città dicotomica, in cui è duro vivere se sei povero, è amichevole solo con i ricchi". La povertà però, sostiene Mullin, dipende soprattutto dall'ondata di nuovi immigrati, "molto diversi dagli oligarchi cubani fuggiti dal castrismo: la loro immigrazione era stata una storia di tremendo successo", sono loro che hanno dato alla città quel personale altamente qualificato e ispanofono che l'ha resa la capitale nordamericana dell'America Latina: qui vivono molti dei latino-americani più ricchi di tutto il continente. Ma la maggioranza è fatta di nuovi immigrati senza qualifiche né specializzazioni, mera mano d'opera che vende a prezzo stracciato il proprio lavoro precario. Tra i nuovi immigrati, quelli che stanno più in fondo alla scala sociale, o in testa alla gerarchia del disprezzo, sono gli haitiani seguiti dai dominicani, e le loro sono le enclaves di povertà paragonabili a quelle nella loro isola da cui sono fuggiti.
"I problemi di Miami sono dolori di giovinezza", dice Mullin: "un secolo fa questa metropoli era un paesetto minuscolo e ancora nel 1960 era una sonnacchiosa cittadina del vecchio sud, rurale, povero e razzista. Non assomigliava in niente alla Miami di oggi che è una realtà a parte e non ha più nulla a che vedere con il Sud degli stati confinanti, Georgia o Alabama". Il vicepresidente della camera di commercio della Grande Miami, Mario Sacasa, mi diceva addirittura che solo dieci anni fa Miami Beach era una centro di vecchi pensionati, mentre oggi ha una vita notturna incredibile e una popolazione giovane e cosmopolita.
"Da questa estrema giovinezza, dice Mullin, discendono varie conseguenze. Per esempio Miami non ha `grandi famiglie', come ne hanno Boston, New York, Chicago, famiglie che vivono nella città da 6 o anche 8 generazioni e che quindi hanno un atteggiamento protettivo verso di essa. Per risolvere i suoi problemi, la città avrà bisogno ancora di un secolo e di un altro paio di rivoluzioni".
In una metropoli in cui tutti si riempiono la bocca di multiculturalismo post-moderno e inni alla diversità, Mullin mi mostra l'altra faccia della diversità: "Miami è la balcanizzazione dell'America latina. Non solo vivono in quartieri separati come Little Haiti, è proprio la struttura che è addirittura tribale: ogni gruppo etnico sta per conto suo, fa affidamento solo ai propri rappresentanti. Da qui un senso di isolamento, la mancanza di una visione globale della metropoli: non c'è un'idea unificante. Tante piccole tattiche col paraocchi solo in vista del proprio ristretto interesse tribale".
Mullin attribuisce alla giovinezza anche un'altra caratteristica: Miami sarà sì un gigante economico, ma è di sicuro un nano culturale. È quasi impossibile trovare una libreria decente: la produzione di film o di libri è bassissima e di bassa qualità. L'offerta culturale nel suo insieme è penosa, la varietà di cinema, teatri, concerti è quella di una città provinciale. Se Miami pensa a se stessa come a una Parigi e una Londra (così dice il suo sindaco), certo che ha da trottare parecchio. "Ma anche questo semideserto culturale è dovuto alla giovinezza, all'immigrazione, alla povertà. Qui, la stragrande maggioranza ha un solo obiettivo: sopravvivere. Non ha il tempo di pensare ad altro. E probabilmente ci sono librerie più ricche in spagnolo che in inglese".
Per tutti gli anni `90 sono usciti articoli pesantissimi sulla corruzione politica di Miami: nel 1998 circa 300 funzionari della contea e del comune risultavano incriminati per malversazioni, bustarelle, appropriazioni indebite... Ma, secondo Mullin, Miami non è più corrotta di Philadelphia o di Chicago: il narcotraffico non rappresenta più un vero problema. "Certo, c'è ancora tanto riciclaggio di denaro sporco, ma questa è una forma di crimine astratta, che non tocca la vita di tutti i giorni. La forma più diffusa è quella del dirottamento di fondi pubblici verso i propri amici privati. Qui hanno capito che il modo più rapido per ascendere è fare politica, entrare in posti di comando e rendere ricchi i propri amici. Che restituiranno il favore".
Ma alla fine, neanche Mullin può esimersi dall'inno alla diversità: "Non credere però che io odi Miami. Io la amo. Per chi fa il mio mestiere - se il giornalismo di giornalista è capire e descrivere una realtà - allora questo è il luogo più eccitante d'America in cui fare il nostro lavoro, dove tutto cambia più velocemente con le contraddizioni più lancinanti."

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …