Gianni Riotta: "Amici italiani, anche Kerry vi chiederebbe di rimanere"

07 Giugno 2004
"Cosa vi chiederebbe il presidente democratico John Kerry, appena eletto alla Casa Bianca? Beh, posso dirle con sicurezza che vi direbbe Amici italiani, restate in Iraq. Non ritirate le vostre truppe impegnate nella difficile pacificazione del Paese. Ne ha bisogno l'Iraq, ne ha bisogno l'America e ne hanno bisogno la ricostruzione dell'alleanza internazionale e l'amicizia tra Stati Uniti ed Europa, dopo questo anno orribile": Samuel Berger, che nella capitale tutti chiamano Sandy, non ha dubbi e, nel giorno in cui gran parte della sinistra si mobilita a Roma contro il presidente George W. Bush, rivendicando il tutti a casa per le nostre truppe, chiede invece di mantenere l'impegno a dare una mano all'Onu e agli Usa. È una voce da ascoltare, perché Sandy Berger, 58 anni, già consigliere per la sicurezza nazionale e intimo amico del presidente Bill Clinton, è l'uomo che ispira Kerry sulla pace e la guerra e, in caso di vittoria democratica, ha in tasca il biglietto che lo porterà al Dipartimento di Stato, ministro degli Esteri. "Il senatore John Kerry vuole - dice Berger, che ha scritto di pugno il manifesto sulla politica internazionale - rendere davvero internazionale la coalizione in Iraq, per una pace condivisa da alleati e Paesi arabi. Sarebbe una iattura, se Kerry arrivasse alla Casa Bianca, ritrovandosi da solo sul campo a Bagdad. È inutile chiedere spazio per l'Onu e una larga compagine, se prevale la scelta del ritiro" percorsa dal premier spagnolo Zapatero. Berger non cela la preoccupazione di veder dissolversi quel poco di alleanze che la Casa Bianca è riuscita a mettere insieme: "Le differenze tra americani ed europei non sono una novità, c'erano anche al tempo del Vietnam, durante la Guerra Fredda. La rottura che s'è prodotta un anno fa deriva da due diverse letture strategiche della crisi, gli europei non vedevano l'urgenza di battere Saddam Hussein, l'amministrazione Bush sì. Ora però il problema non è rimuginare su torti e ragioni, ma evitare che l'Iraq si disintegri nel caos, nell'anarchia e nella guerra civile. Rispetto i motivi che hanno animato gli europei nel 2003, ma sono persuaso che non sia nel loro interesse, o nell'interesse del Medio Oriente, che l'Iraq si trasformi in un calderone di terrorismo e violenza. Per questo è importante che gli italiani restino e, se davvero John Kerry sarà eletto, si potrà fare insieme un ottimo lavoro nell'interesse degli iracheni e della pace". Insofferente all'unilateralismo repubblicano, Berger è cosciente che la rottura radicale tra Usa e Unione Europea, in odio a Bush, finirebbe per danneggiare anche un'amministrazione Kerry. Celebre per i suoi vestiti sempre stazzonati, giocatore di baseball dilettante, presidente della squadra "Berger Kings", orfano che si è pagato le prestigiose università di Cornell e Harvard rimettendo a posto i birilli in una sala da bowling, Sandy Berger ha guidato con Clinton la coalizione Usa-Europa, Italia inclusa, che piegò Slobodan Milosevic fermando la pulizia etnica in Kosovo. Oggi parla agli europei, tutti: "Senta, io capisco che gli abusi al carcere di Abu Ghraib hanno creato un grave danno alla nostra immagine ovunque nel mondo. Adesso ci tocca convincere gli iracheni che, se abbiamo fallito in quel carcere, non falliremo però nel processo contro i responsabili. Gli europei devono capire che il consenso per la guerra in Iraq si sta erodendo anche negli Stati Uniti, non esiste la fortezza America tetragona a tutto di cui talvolta sento parlare. Io credo sia ancora possibile che la nostra missione a Bagdad vada a buon fine, ma siamo vicinissimi al punto di rottura e restare soli, senza i pochi alleati che abbiamo, come l'Italia, sarebbe disastroso. Bush ha rotto il vespaio del terrorismo e ora le vespe volano ovunque. Il ministro Rumsfeld ha sbagliato nel valutare le forze necessarie, non ascoltando i piani dell'esercito, e adesso abbiamo una strategia per 12 divisioni ma ne possiamo dislocare solo 10". C'è chi, come il deputato di Harlem, Charles Rangel, chiede di ripristinare la leva obbligatoria, "per evitare che i figli del popolo muoiano e i figli di papà vadano a Wall Street", ma la misura egualitaria è avversata da 3 americani su 4 e anche Berger è perplesso: "Se apriamo il dibattito sulla leva tanto vale ritirarsi subito dall'Iraq e scontare le conseguenze nefaste di quel passo". La lista di governo stilata dal messo dell'Onu Lakhdar Brahimi solleva pochi entusiasmi, la seconda risoluzione all'Onu è in alto mare e i francesi puntano i piedi, ieri s'è dimesso il capo della Cia, George Tenet, l'uomo del Pentagono a Bagdad, Chalabi, è accusato di spionaggio per l'Iran, membro dell'"asse del male", la guerriglia continua in Iraq e il terrorismo in Arabia Saudita. Solitaria buona notizia il plauso dell'influente ayatollah Al Sistani al piano Brahimi. Sarà dura per il presidente Kerry, mister Berger? "Sandy" non si nasconde dietro l'inamidato "Non parlo a nome del senatore Kerry ma..." di prassi a Washington, ma incalza preciso: "John Kerry ricostruirà l'alleanza atlantica che ha funzionato bene per mezzo secolo, senza lacerazioni. Gli alleati saranno al centro della nostra strategia, mentre Bush si accontenta di una coalizione con la Mauritania che manda 50 soldati. Utile, ma non è il punto. La svolta è discutere con gli alleati, condividere responsabilità e impegni. C'è in Iraq un problema di potere, sovranità popolare e consenso, interno ed internazionale. Con Kerry alla Casa Bianca tornerà il dialogo. L' equilibrio a Bagdad necessita degli Stati Uniti, dell'Onu, ma occorre una terza forza, una presenza internazionale, che dia legittimità e aiuti a operare, come in Bosnia e in Kosovo. Altrimenti la giunta Brahimi sarà sostenuta da una ipertrofica ambasciata americana, che continuerà ad agire da sola. E non funzionerà". Berger ha riassunto per Kerry lo studio che l'amministrazione Bush ha commissionato al professor Simon Serfaty sull'impatto strategico del conflitto in Iraq sulle relazione Usa-Europa. È un testo fosco: la sconfitta americana a Bagdad, il ritiro, la guerra civile "farebbe ripartire in Europa tendenze nazionalistiche... già ora tanti in Europa lavorano a una strategia separata dagli Usa e dal loro scontro con l'Islam, unito dagli abusi americani e dalla distorsione dei valori occidentali". L'Europa del dopo sconfitta in Iraq guarderebbe a Cina e Russia e non agli Stati Uniti, Putin proverebbe a rilanciare l'impero di Mosca e Francia e Germania cementerebbero un patto a due, salassando l'Unione Europea. Berger si alza all'alba e lavora fino a notte tarda, "fatica perfino più di Kissinger" dicono i suoi collaboratori affranti, e adesso si ammazza di fatica per eleggere Kerry e sconfiggere la diaspora atlantica. "Sa cosa mi preoccupa? Mentre siamo tutti ipnotizzati da Bagdad, la Corea del Nord ha pronte, o sta per ultimare, sei testate nucleari. Ecco di cosa vorrei parlare con gli amici europei". In caso di vittoria ha stilato un decalogo in dieci punti: punto 1 "Lavoriamo per la Casa Bianca e il presidente, se perdiamo il senso di rispetto, andiamo a casa", punto 10 "Dobbiamo essere fieri di lavorare per il nostro Paese", punto 3 "Pensare molto, parlare poco". L'intervista è dunque finita: Berger e Kerry sperano che anche la sinistra italiana pensi molto e, soprattutto, ci ripensi.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …